È la stagione degli scandali. Scoppiano dappertutto, dallo sport, alla politica, all'economia e alla finanza. Ma una costante li accomuna. Scoppiano dove ci sono forti interessi in competizione; in altre parole, dove sono in circolazione, direttamente o indirettamente, montagne di soldi. I quali soldi come misura del successo sono la conseguenza del mondo contemporaneo, all'interno del quale la concorrenza fra interessi è particolarmente forte e, quindi, i soldi che ne sono coinvolti tanti.
Rispetto ai tempi dei nostri nonni, si direbbe che gli uomini siano peggiorati, siano diventati meno onesti, o, comunque, meno rispettosi delle buone regole della convivenza. Ma non sono gli uomini che sono cambiati. È il mondo. Gli avversari del capitalismo e del mercato dicono che la colpa è del capitalismo e del mercato, che mercificano tutto. Tutto si ridurrebbe a una gara a guadagnare di più e ai soldi che ne sono coinvolti. Ma le cose non sono spiegabili così schematicamente. È cambiata la cultura comune e una parte di responsabilità l'hanno certamente il capitalismo e il mercato, che sono concorrenziali per definizione. Ma è anche un fatto che, rispetto ai nostri nonni, gli uomini sono diventati più competitivi e la società in cui vivono è più conflittuale proprio grazie allo sviluppo capitalistico e del mercato. Viviamo meglio, ma siamo più esposti alla concorrenza e alla competizione. Chi non si dà da fare resta indietro; tutti lo sanno e si regolano di conseguenza.
La morale cattolica, che definisce il denaro «lo sterco del diavolo», tende ad attribuirgli la responsabilità morale di quanto accade. Ma non è così. Il denaro misura il livello della concorrenza e della competizione, ma non è il fattore decisivo del successo. Misuriamo il successo col metro del denaro che l'uomo riesce a guadagnare e ad accumulare perché non abbiamo altro metro di misura, non avendo capito che il capitalismo e il mercato sono stati la più grande rivoluzione a fondamento del mondo moderno. Siamo anche più liberi grazie al capitalismo e al mercato, ma tendiamo a ignorarlo. Sarebbe perciò sbagliato fare del denaro un bersaglio contro il quale sparare a palle di fuoco moralistiche, solo perché non sappiamo spiegare altrimenti il fenomeno. Non siamo ancora l'America, dove - basta andarci per capirlo - il denaro è la misura del successo, ma siamo sulla strada del modello americano perché il mondo cambia in quella direzione e anche il nostro è cambiato.
Non c'è nessuno che voglia, e sappia, perdere, e poiché è il denaro la misura del successo, ecco che esso (il denaro) diventa la misura di tutte le cose, compreso il successo sociale. Sarà che non sono ricco e non ho neppure alcuna probabilità di diventarlo, ma è un fatto che non ho mai misurato il mio successo professionale sulla base del mio reddito del quale mi sono, oltre tutto, occupato assai poco. Anzi. Mi ha sempre dato più soddisfazione, e ancora me ne dà, fare decentemente il mio mestiere ed esserne riconosciuto dai miei lettori, più che i guadagni che avrei potuto ricavarne o i pochi che ne ho ricavato. Forse è per questo che morirò povero... Ma non me ne dolgo. Giudico il denaro per quello che mi può dare ed è forse questa la ragione per la quale sono istintivamente uno spendaccione più che un risparmiatore. Consiglio di pensarla come me chiunque faccia del denaro la misura del proprio successo. Credo di essermela cavata professionalmente, ma se dovessi misurare il mio successo col denaro che ho guadagnato dovrei concludere che non ho avuto poi il successo che molti ritengono io abbia avuto.
Perché ho affrontato l'argomento? Perché, realisticamente, diffido dei moralismi, che nella società in cui vivo sono la conseguenza in parte dettata dalla religione e in parte dettata dall'invidia sociale incoraggiata dalla sinistra. Non invidio chi guadagna, e ha più soldi di me e penso che dovremmo liberarci tutti insieme delle scorie di chi ritiene il denaro «lo sterco del diavolo» o la sola misura delle diseguaglianze sociali.
Non è una benedizione, come predica la morale calvinista, ma neppure una maledizione morale, come fa quella cattolica. Tutto sta non diventarne psicologicamente prigionieri e contare unicamente su quello che si è in grado di guadagnare. Senza vanterie o frustrazioni.piero.ostellino@ilgiornale.it
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