No alla democrazia low cost

Nella rincorsa demagogica a chi taglia di più, abbiamo messo in saldo la democrazia

No alla democrazia low cost

Nella rincorsa demagogica a chi taglia di più, abbiamo messo in saldo la democrazia. E ci siamo scordati che gli emolumenti in questione, che consentono di condurre una vita dignitosa, di pagarsi vitto e alloggio a Roma, trasferte in giro per l'Italia, di finanziare l'attività politica (convegni, circoli, iniziative editoriali...), tali emolumenti sono stati concepiti agli inizi del Novecento con un fine ultrademocratico: il mandato parlamentare deve essere accessibile a tutti, contadini e ingegneri, nullatenenti e notabili danarosi. Basta con la democrazia elitaria. Nella prima metà degli anni Venti, per dirne una, il deputato-contadino socialista Pietro Abbo, di Oneglia, non potendosi permettere un appartamento a Roma, usava il cosiddetto «permanente» delle Ferrovie per dormire ogni notte sul treno Roma-Firenze e rientrare in tempo per l'apertura dei lavori. Abbo non era l'unico ad affrontare tali disagi. Tagliando i senatori, cari amici, si risparmia. Tagliando il Parlamento, se ci pensate, si risparmia ancor di più. La democrazia low cost è l'ultima eruzione, in ordine di tempo, del vulcano demagogico che sovrasta la politica nazionale. In crisi di legittimazione, i parlamentari di un Parlamento sempre più impotente devono giustificare la propria esistenza. Eppure, belli o buoni che siano, sono i nostri eletti, attraverso il loro mandato noi cittadini esercitiamo la sovranità popolare. In questo abisso di dimenticanze, ognuno spara la sua, l'imperativo è tagliare, sobrietà-tà-tà. La voce grossa la fanno i grillini che le indennità parlamentari vorrebbero dimezzarle. Gli stessi, che hanno presto accantonato riunioni in streaming e intransigenza sugli avvisi di garanzia (gravi però, insomma, dipende...), hanno qualche problema di rendicontazione, il vicepresidente del Senato Luigi Di Maio buca oltre il 60 per cento delle sedute e spende 100mila euro in tre anni per eventi sul territorio. Non vuole essere da meno Giorgia Meloni che avanza la fumosa proposta di agganciare le indennità al tasso di disoccupazione: se questo cala, i compensi aumentano. C'è pure chi vorrebbe allineare gli stipendi, attualmente parametrati ai presidenti di sezione della Corte di cassazione, a quelli dei professori universitari, chi ai sindaci delle grandi città, chi ai parlamentari europei. La demagogia solletica la fantasia. Attualmente i parlamentari percepiscono un'indennità mensile di 5mila euro netti, una cifra non astronomica cui si aggiungono diverse voci che gonfiano l'importo finale. Per esempio, la quota destinata ai collaboratori va rendicontata solo per metà. Risultato: c'è chi la destina interamente ai portaborse e chi ne intasca una parte. La soluzione sarebbe semplice: collaboratori remunerati direttamente dagli uffici della Camera, come avviene a Bruxelles. Un passo avanti nel segno della trasparenza. Sventolare i tagli esemplari serve solo ad alimentare l'invidia sociale, senza comprendere che quelle cifre permettono a tutti di fare politica in modo decoroso e degno, come richiede la funzione di rappresentanza. Al mercato, insegnano le massaie, se qualcosa costa poco, la qualità è sospetta. Tagliare gli stipendi significa livellare verso il basso le competenze, dissuadendo chiunque abbia un mestiere e una qualche capacità di reddito.

Che un deputato passi da 5mila euro netti a 5mila lordi, come domandano i grillini, non risolve il problema. È piuttosto un inganno mascherato da un nobile proposito francescano. Obblighiamo i parlamentari a rendicontare. E pure i grillini avranno qualche problema.

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