Israele è di nuovo oggetto di un severo scrutinio mediatico. Jenin è l'epitome di quello che viene considerato uno degli episodi di scontro violento fra due parti: Israele e i palestinesi. Come in uno stadio di dimensioni mondiali, ci sono due grandi tifoserie, ma nel campo dei media quella che tiene per i palestinesi è certamente la maggiore. La ragione si capisce: le forze israeliane sono meglio armate e, quando agiscono, i morti palestinesi sono in numero maggiore. Inoltre, poiché il governo di Bibi Netanyahu, un leader moderato oggi alla testa di una coalizione in cui siedono due ministri di estrema destra, non ha fiducia in un accordo con i palestinesi, questo viene vissuto come un rifiuto israeliano della questione. Ma non si ricorda che Netanyahu, che non ha mai delegittimato l'idea di due stati, da lui anzi sostenuta, ha tentato a lungo di formare la sua coalizione con Benny Gantz, ex ministro della difesa: il rifiuto è stato netto e questo lo ha spinto a formare una coalizione in cui i rapporti non sono facili.
Ciò, tuttavia, non c'entra con la lotta al terrorismo: qui, anche la sinistra è allineata con l'operazione contro i terroristi di Jenin, a partire da Yair Lapid. Per tutti è pura autodifesa, una scelta non politica, ma pratica e indispensabile. Anche in Israele, come in ogni democrazia, in primis devi salvare la vita dei tuoi cittadini. Dall'inizio dell'anno, la crescita esponenziale degli attacchi terroristici contro i civili israeliani, 28 morti che rapportati ai numeri italiani corrispondono a 168 persone circa, ha fatto sì che ogni volta si cercasse di fermare la frana, senza risultati. Duecento attentati, di cui 50 a fuoco in sei mesi, tutti dalla Cisgiordania, con centro a Jenin, e non da Gaza, hanno imposto l'operazione.
Fra i palestinesi è cambiato il ritmo e il sistema: un'escalation di armamenti, di sprint ideologico, di gruppi vecchi e nuovi ha invaso il terreno coprendolo di vittime da Tel Aviv alla Cisgiordania. E Israele ha agito contro il terrore con l'esercito. Ma non è uno scontro fra due forze contrapposte: si capisce dal video dell'attacco a Tel Aviv, i ragazzi seduti tranquilli in un bar del centro investiti da una macchina e pugnalati; o nelle settimane scorse, due fratellini che aspettano l'autobus fucilati, come una madre con le due figlie in auto.
L'idea strategia del terrorismo attuale, supportato come non mai dall'Iran e spostato da Gaza alla Cisgiordania, è che la sorpresa da ogni parte prosciugherà la vita d'Israele nella paura e nel dolore. Il consenso è grande: il 71% dei palestinesi supporta i gruppi terroristici, il 70% è contro l'idea di due stati, il 52 contro il 21 preferisce la resistenza armata ai negoziati. L'esercito israeliano dunque non aveva altra scelta che entrare a Jenin, epicentro del nuovo terrore, da cui, novità strategica, sono partiti anche missili, ad arrestare terroristi asserragliati in una fortezza. L'esercito sa che i soldati possono compiere errori e uccidere civili, quindi ha programmato a fondo: non è un caso che fino a ieri abbia ucciso 9 persone tutte armate.
La strategia dei gruppi di Jenin, Jihad Islamica, Hamas, gruppetti autonomi, è divenuta molto più internazionale, l'Iran incita e arma da quando Qasem Suleimani e poi l'ayatollah Khamenai decisero che i palestinesi entrassero nel fronte formato da Libano e Siria. L'esercito si è preparato a fondo per quella fortezza densa di armi, cuniculi, sotterranei, esplosivi per ogni dove. Entrando, ha distrutto, rovinato, fatto saltare per aria mura che celavano depositi di esplosivo.
Difficile la domanda su cosa accadrà domani: forse, se Abu Mazen si deciderà a cedere lo scettro e la politica, il cui fulcro sono gli stipendi ai terroristi e l'incitamento, qualche porta si potrebbe riaprire. Ma il raìs sembra preferire la strada legata agli stereotipi che hanno sempre scelto il «no» come risposta.
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