"Il partito unico? Per funzionare serve il ritorno al maggioritario"

Lo studioso: "Il pluralismo è frammentazione. Con una nuova legge, anche la sinistra dovrebbe adeguarsi. Magari con un Nuovo Ulivo"

"Il partito unico? Per funzionare serve il ritorno al maggioritario"

Il partito unico? «Il termine è un po' raggelante in democrazia», risponde con una punta di perfida ironia Gianfranco Pasquino, professore emerito di scienza della politica e fresco autore del saggio Libertà inutile, profilo ideologico dell'Italia repubblicana, appena pubblicato da Utet. «Ma il punto è un altro».

Scusi, almeno dalle parti del centrodestra il dibattito gira proprio attorno a questa questione: si fa il partito unico? Non si fa e ci si ferma alla Federazione? O ancora, meglio non fare nulla?

«Berlusconi ebbe un'intuizione geniale quando creò una coalizione unificata nel 1994: un Polo al Nord e un altro al Sud, con Forza Italia come perno di un'alleanza che comprendeva Alleanza Nazionale e la Lega».

Oggi?

«Oggi Salvini ha bisogno di visibilità, è lo studente che copia, il copione. Ma il Berlusconi del 1994 aveva un grande vantaggio rispetto al Salvini di oggi: c'era il Mattarellum, un sistema maggioritario con i collegi uninominali, un sistema che spingeva verso l'unità».

Oggi c'è il Rosatellum che ha una quota maggioritaria. Non basta?

«No che non basta, questo è un sistema misto con una modesta quota maggioritaria, quello era maggioritario per tre quarti. Capisce, se cambiano le regole del gioco cambia tutto».

Altrimenti?

«Si può andare avanti a discutere per mesi, ma mi lasci essere scettico: non credo che arriveremmo molto in là. Tanto per cominciare, la Meloni sta bene dove sta: ha una rendita di opposizione».

Ma il partito unico...

«Dica pure la coalizione unica, anzi meglio unificata».

Dunque, la coalizione unica può funzionare?

«Se si modifica la legge elettorale, Penso di sì e il discorso può farsi interessante».

Interessante?

«Si supera il pluralismo che in realtà è frammentazione e dispersione delle forze e si stabilisce una leadership chiara. Non è poco».

Fra Salvini e Meloni?

«Ci si siede intorno a un tavolo, si guardano i sondaggi, gli ultimi, naturalmente, e sulla base di quelli si decide chi sarà il candidato premier. Non esiste col maggioritario un'altra formula».

Dall'altra parte?

«Pensi a cosa vorrebbe dire un Nuovo ulivo: potrebbe essere un passo in avanti straordinario per le forze di sinistra. Sfruttando anche il nome autorevole di Prodi che oggi torna nella corsa al Quirinale».

Ma come lo chiamerebbe?

«Ovviamente toglierei ogni riferimento all'Ulivo. Eh, mi pare non porti bene. Lo battezzerei partito Progressista, in contrapposizione al partito Conservatore o, magari con lessico berlusconiano, partito Liberale, meglio ancora partito Liberale nazionale».

Il centrosinistra unito avrebbe più forza?

«Potrebbe ad esempio rivolgersi ai sindacati e chiamarli ad un dialogo riformatore proprio in nome delle idee progressiste. Credo che l'impatto sarebbe forte e si sprigionerebbero suggestioni inedite. Penso che alla fine da una parte e dall'altra ci sarebbero coalizioni in grado di mordere la realtà e di incidere davvero sui problemi. Ma, ripeto, se non si forzano le regole del gioco, il match rimane una partita fra dilettanti».

Insomma, la semplificazione del quadro da sola non basta?

«Direi proprio di no. Ha presente la Dc?».

Perché?

«La Democrazia cristiana era già una sorta di partito unico che andava da destra a sinistra e in cui le correnti pescavano in bacini diversi, tant'è che se oggi seguissimo i voti degli elettori dello scudo crociato li ritroveremmo nel centrodestra e nel centrosinistra. Ma il partito unico non basta, la semplificazione senza un cambio della legge in senso maggioritario è un'incompiuta e non dà risultati. Le correnti si spostano in funzione del potere e destabilizzano. Siamo punto e a capo».

Il maggioritario come punto di partenza, ma poi si dovrebbe passare ad un sistema presidenziale o semipresidenziale?

«Sulla carta va benissimo, ma naturalmente questo è un discorso che nessuno vuole affrontare: per arrivare al presidenzialismo dovremmo immaginare una crisi gravissima, un crollo che francamente non c'è».

Ma potendo e dovendo scegliere, meglio il modello americano o quello francese?

«Meglio, molto meglio il sistema semipresidenziale francese.

Negli Usa il presidente si trova spesso in difficoltà perché la Camera o il Senato hanno una maggioranza di segno opposto. In Francia, con la coabitazione, c'è sempre qualcuno che comanda: il presidente o il premier e non c'è il rischio di paralisi. Ma ci vorrebbe un De Gaulle all'orizzonte e io francamente non lo vedo».

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