Gli agenti penitenziari hanno osservato la sua condotta in carcere e in lui hanno visto un pericolo ancora vivo. Per questo il terrorista islamico dell'attentato a Charlie Hebdo a Parigi, detenuto fino a una settimana fa nel carcere di massima sicurezza di Corigliano Rossano, è stato espulso dall'Italia una volta uscito di prigione. Troppo rischioso non farlo.
Come lui nelle carceri italiane, ci sono 500 islamici a rischio radicalizzazione tra i 15mila di fede musulmana. Tra questi una cinquantina sono in cella con l'accusa di terrorismo internazionale nelle sezioni di alta sicurezza di Rossano, Sassari e Nuoro. E, soprattutto ora, la guardia non va abbassata. A lanciare l'allarme è Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato Spp della polizia penitenziaria: «Sono sempre più numerosi gli episodi di detenuti di fede islamica che in carcere manifestano comportamenti tipici della radicalizzazione islamica, come inneggiare agli attentati di matrice islamica e mostrare apertamente odio verso l'Occidente». Oppure che incitando i compagni al martirio. L'obbiettivo è evitare altri casi come quello di Anis Amri, che nel 2016 si è lanciato con un autoarticolato in un mercatino di Natale a Berlino uccidendo 12 persone e ferendone 56. Amri, tunisino, aveva avviato il suo percorso di ultra radicalizzazione proprio in carcere.
In base alla relazione del Ministero di Giustizia del 2018 gli imam nelle carceri sono 97, i convertiti durante la detenzione sono 44 e quelli che si sono proposti di fare le veci dell'imam tra i compagni sono 88. Più di 230 detenuti sono sottoposti al primo livello, cioè hanno manifestato atteggiamenti che rilevano forme di proselitismo, radicalizzazione e reclutamento. Un centinaio si sono rivelati molto vicini alle ideologie jihadiste.
Il rischio di radicalizzazione islamica è un «tema che deve far mantenere sempre gli occhi bene aperti, perché tutti i luoghi chiusi, di collettività chiuse, possono avere rischi di esasperazione che poi prendono forme di radicalizzazione. Ma non vedo questo rischio attuale nel carcere italiano» sostiene il presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. Forse lo dice per evitare allarmismi e stemperare la tensione di questo ultimo periodo. Ma il problema c'è, anche se sottopelle. A sostenerlo è anche Elettra Santori, jihadologa, consigliere scientifico della fondazione Icsa (intelligence Culture and Strategic Analysis) e autrice di uno studio intitolato «Terrorismo, criminalità e contrabbando» assieme a Carlo De Stefano e Italo Saverio Trento. «Chi ha già commesso crimini può essere predisposto a un'ultra radicalizzazione - spiega Santori - Ha familiarità con la violenza e dimestichezza con le armi. E poi va considerato il nesso prigione - terrore: il carcere aumenta il risentimento nei confronti della società, l'odio verso l'Occidente che ha tradito le aspettative dei migranti. Le condizioni degli istituti penitenziari alimentano la retorica dell'Islam negato e tutto questo fa maturare potenziali jihadisti». Non va poi sottovalutato il più silente dei campanelli d'allarme: la taqiyya. Nella tradizione islamica, soprattutto in quella sciita, è la possibilità di nascondere o addirittura rinnegare esteriormente la fede, di dissimulare l'adesione a un gruppo religioso. «Questa dissimulazione per scopi strategici - spiega Santori - può andare avanti anche per anni. Quello jihadista è un progetto a lungo termine».
Da qui la profonda pazienza di chi sembra poco radicalizzato o perfino integrato e che poi di colpo si rivela pronto ad andare in missione in nome di Allah. E quei segnali dissimulati vanno colti, con personale carcerario in grado di distinguere tra ultra radicalizzazione e semplice applicazione della fede musulmana.
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