Lui sta lì, saldamente aggrappato alla poltrona e fermo immobile, «come un semaforo» diceva l'indimenticabile caricatura di Romano Prodi messa in scena da Corrado Guzzanti. E intorno lo stringono d'assedio i capi della sua maggioranza, cercando di fiaccare la sua resistenza immobilista e di neutralizzare la strategia dell'anguilla di Giuseppe Conte.
Ieri è partito all'attacco Matteo Renzi, che - almeno contro Conte - è in perfetta sintonia con il leader Pd Nicola Zingaretti: «O la politica si muove - avverte l'ex premier - o arrivano i tecnici. Mettiamoci attorno a un tavolo» e da lì si esca finalmente «con le scelte finali su lavoro, Mes, Autostrade, Ilva, Recovery fund, legge elettorale, infrastrutture». Renzi incalza l'Oblomov di Palazzo Chigi: «Non possiamo andare avanti di emergenza in emergenza solo contro Salvini». O il governo «fa un salto di qualità ora, o mai più». Il tavolo di maggioranza per decidere «è un dovere morale», e andrebbe secondo Renzi accompagnato con un rimpasto che rafforzi la maggioranza (e indebolisca l'autocrazia del premier, è il sottinteso) con l'ingresso di un big del Pd: lo stesso Zingaretti o, «al limite», il suo vice Orlando. Il segretario Pd declina: «Resto dove sto», ma si unisce a Renzi nel reclamare «un salto di qualità».
Lo strattonamento di Conte non dispiace affatto a Zingaretti, e i suoi commentano che Renzi conferma ciò che va dicendo da tempo il segretario e riconosce che «le carte le deve dare il Pd». Ma il capo del governo si guarda bene dal raccogliere, e preferisce intrufolarsi nelle celebrazioni religiose di San Francesco, in quel di Assisi, e lanciare ecumenici messaggi urbi et orbi sul «nuovo umanesimo» (si immagina ispirato da Rocco Casalino) su cui «ridisegnare la politica»; sul Covid che «ci pone interrogativi sulla vita e la morte»; sul fatto che «il nemico non è sconfitto e dobbiamo combatterlo tutti insieme, come fratelli» e simili amenità.
Mentre i dossier irrisolti si accumulano nei cassetti di Palazzo Chigi e rischiano di precipitare prima o poi a valanga sui conti pubblici italiani, e mentre le trappole sul suo cammino si moltiplicano (dal ritardo del Recovery Fund alla pericolosissima convocazione davanti al giudice di Catania per il caso Gregoretti), il premier Conte si aggrappa alla sua arma fine-di-mondo: il ritorno della pandemia. Che gli consente di ritagliarsi poteri di emergenza, di mettere a tacere i critici e di ritagliarsi un ruolo da padre della patria che nessuno può permettersi - ora - di mettere in discussione. «Non disperdiamo i risultati sin qui raggiunti, insieme possiamo vincere la sfida di questa crisi sanitaria ed economica con fiducia e coraggio», gorgheggia il premier via Facebook. Intanto dispone i sacchi di sabbia: arruola ministri alla causa del silenzio sul Mes (Gualtieri, che su questo si scontra con Zingaretti; Amendola; Speranza). Fa diffondere da messaggeri laterali (come l'ex ministro di Fi Rotondi, i cui tweet sono seguitissimi) il messaggio che, in caso di crisi provocata da strappi della maggioranza (ad esempio sul Mes) lui «sa benissimo cosa fare».
Ad esempio chiedere elezioni anticipate e andarci con una sua lista, cui i fanta-sondaggi di Palazzo Chigi attribuivano addirittura il 15%, saccheggiando voti e personale politico (dallo stesso Speranza all'ala governista di M5s) a chi lo ha fatto inciampare.
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