Un trampolino di lancio verso nomine prestigiose e avanzamenti di carriera: questo è stato, per buona parte dei magistrati che se ne sono occupati, il processo a Silvio Berlusconi per la vicenda dei diritti tv. Adesso che sulla sentenza che dichiarò colpevole il Cavaliere di frode fiscale si allungano le ombre delle dichiarazioni di Amedeo Franco, uno dei giudici di Cassazione che resero definitivi il verdetto. È interessante andare a spulciare, come nei titoli di coda di certi film, come sono proseguite le storie professionali dei ventuno magistrati che, in un ruolo o nell'altro, hanno contribuito a portare a compimento il processo che ora le rivelazioni di Franco marchiano come «una porcheria», attuata sulla base di indicazioni ricevute «dall'alto» per chiudere i conti con quel «mascalzone» di Berlusconi. E si scopre che molti di loro hanno avuto percorsi ricchi di soddisfazioni: anche se ovviamente non si può affermare che proprio dal ruolo avuto nella crociata giudiziaria contro il Cav siano dipese le loro fortune.
Tra le carriere più brillanti si segnala in prima luogo quella di Fabio De Pasquale, il pm milanese che per primo intravide l'ombra del delitto dietro gli affari televisivi di Berlusconi, che incriminò il leader azzurro e sostenne l'accusa contro di lui nel corso del lungo e complesso processo di primo grado. Oggi De Pasquale è procuratore aggiunto della Repubblica nel capoluogo lombardo, con delega alle delicate indagini sui delitti economici transanzionali. Negli ultimi anni si è dedicato a indagare contro l'Eni per presunte storie di tangenti in Africa, e qui finora gli è andata meno bene. Ma non è detta l'ultima parola.
Il presidente del tribunale che condannò Berlusconi, Edoardo D'Avossa (autore di una performance memorabile, scrisse le motivazioni direttamente durante la camera di consiglio riducendo drasticamente i tempi per i ricorsi e scongiurando i rischi di prescrizione) è andato in pensione poco dopo, e le sue giudici a latere hanno proseguito senza sbalzi la loro carriera. Ben diversa la situazione dei giudici della Corte d'appello milanese che nel maggio 2013 respinsero il ricorso dell'ex premier e confermarono la sua condanna: il relatore, ovvero colui che stese le motivazioni della sentenza, Enrico Scarlini, con un balzo impressionante è stato promosso consigliere di Cassazione, dove tutt'ora esercita la funzione; il magistrato che sostenne con successo l'accusa, Laura Bertolè Viale, fu nominata poco dopo avvocato generale, e resse a lungo la Procura generale di Milano durante la malattia del suo capo, Manlio Minale.
Altrettanto luminosi i destini cui sono andati incontro i magistrati che in Cassazione esaminarono il caso. Il presidente della sezione, Antonio Esposito, è andato in pensione poco dopo senza ulteriori avanzamenti. Ma il relatore, Amedeo Franco, quello che pochi mesi dopo rivelò a Berlusconi di avere firmato obtorto collo una sentenza che riteneva assurda, nel 2016 venne nominato presidente di sezione in Cassazione. Mentre ad un altro giudice del collegio, Ercole Aprile, andò ancora meglio: subito dopo avere partecipato alla condanna di Berlusconi venne candidato da Magistratura Democratica al Consiglio superiore della magistratura, venne eletto con un profluvio di voti e sedette in Csm insieme a Luca Palamara negli anni ora oggetto dell'inchiesta sulle nomine dei capi degli uffici giudiziari. Gravido di soddisfazioni anche l'avvenire che attendeva il rappresentante dell'accusa in Cassazione, il sostituto procuratore generale Antonio Mura. Il Csm voleva nominarlo procuratore generale a Venezia, lui rinunciò perché puntava molto più in alto. Infatti oggi è procuratore generale di Roma, un posto dal potere quasi sconfinato (basti pensare che da lui passa l'okay a tutte le intercettazioni compiute informalmente dai servizi segreti) e ancora non è finita: viene dato in pole position per diventare procuratore generale della Cassazione quando, tra due anni, l'attuale inquilino Giovanni Salvi andrà in pensione.
A concludere l'elenco, il presidente della sezione d'appello milanese che dovette occuparsi dell'ultimo cascame della vicenda, il processo che dovette ricalcolare l'interdizione dei pubblici uffici inflitta a Berlusconi come pena accessoria: il giudice Arturo Soprano accolse in pieno la richiesta dell'accusa. Pochi mesi dopo era presidente della Corte d'appello di Torino.
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