Reggio Emilia come Milano: uccisi in aula, lo Stato non paga

Reggio Emilia come Milano: uccisi in aula, lo Stato non paga

I tribunali? Per il ministero della Giustizia sono come un parco: può capitare che ci scappi il morto.

Giura e spergiura, il guardasigilli Andrea Orlando, che saranno individuate le falle nei sistemi di sicurezza che hanno consentito a Claudio Giardiello di compiere una strage. Ma non dice che su una cosa non nutre dubbi: la responsabilità non può essere del ministero. C'è scritto nelle corpose memorie che l'Avvocatura dello Stato ha presentato, in nome del ministero, in un procedimento nato da vicende analoghe a quelli milanesi.

È il 17 ottobre del 2007: a Reggio Emilia un albanese di 40 anni, Clarim Fejzo, impegnato a discutere in tribunale la separazione dalla moglie, tira fuori una calibro 7.65. Spara. Fredda la donna, Vjosa Demcolli, e prima di essere ucciso da un poliziotto fa in tempo ad ammazzare il cognato, Arjan Demcolli, che cercava di disarmarlo. Nel 2008 gli eredi chiedono d'essere risarciti: se l'assassino è potuto arrivare fin davanti ai giudici con una pistola è stato per le famose falle nei sistemi di sicurezza, già all'epoca evidentemente ben presenti. E il ministero che fa? Prova a scaricare ogni colpa sul Comune reggiano. Ma il Tribunale di Bologna (territorialmente competente) lo boccia, forte anche d'un precedente: a Varese, nel 2002, le aule di giustizia erano state sfondo di un altro omicidio. E in quel caso lo Stato era stato condannato a pagare per le sue negligenze. Così avviene pure all'ombra delle due torri, sulla base d'un principio chiaro: «È rimessa al procuratore generale presso la Corte d'Appello la competenza decisionale sui provvedimenti necessari ad assicurare la sicurezza interna delle strutture in cui si svolge l'attività giudiziaria». E giù una sfilza di norme per ricordare essere «pacifico l'obbligo del ministero di vigilare sulla sicurezza interna dei palazzi di giustizia». Naturale, ma costoso: l'Avvocatura presenta appello. Le motivazioni? «Non esiste legge che contempli un obbligo di prevenzione dei reati, ma solo una disposizione amministrativa, sottratta al sindacato del giudice ordinario». E ancora: «Nei tribunali come in qualsiasi luogo pubblico, quali parchi, uffici postali, ospedali, può anche verificarsi un fatto criminale, ma senza che ciò determini in via automatica alcuna responsabilità dell'amministrazione». Pure perché, si aggiunge, «nessuna delle parti coinvolte ha ritenuto di richiedere l'intervento delle forze dell'ordine nel giorno dell'udienza in cui si svolsero i fatti». Insomma, se le vittime e i loro familiari, scrutando nella palla di vetro, si fossero presi la briga di leggere il futuro, nulla sarebbe accaduto. «Assurdo», si lascia sfuggire l'avvocato Cristina Cataliotti, che col padre Carmelo ed il fratello Liborio difende i Demcolli: «Chi lavora per la giustizia, e chi la giustizia cerca, dovrebbe avere la certezza di trovarsi in un ambiente sicuro. Ed a garantire la sicurezza non può che essere lo Stato». Che però la pensa diversamente.

Decideranno i

giudici: il 28 maggio è fissata l'udienza di precisazione delle conclusioni. La sentenza dovrebbe arrivare entro la fine dell'anno. Ma a via Arenula già sanno che loro non hanno colpe. Per autodefinizione, non possono averne.

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