Il potere taumaturgico della parola, la sfacciataggine della politica nel coniare sostantivi e graduare aggettivi per fare digerire all'elettorato ranci indigesti di quart'ordine. La stessa persona, anche se immutabile, può ritrovarsi definita in modi diversi solo al cambiare delle stagioni e soprattutto delle convenienze di giornata
Dalle parti di Camera e Senato, con vista su governo e sottogoverno, è sempre aperta la finestra per fare passare opportunisti e avventurieri inebriati da un insperato colpo di fortuna. Immaginiamo le trepidanti attese e l'euforia di qualche peone perso tra i banchi parlamentari che all'improvviso sente che è arrivato il momento atteso da una vita. La parodia farsesca del dramma politico del Presidente di Georges Simenon, l'immaginario statista (in realtà ispirato al presidente francese Georges Clemenceau) che nell'autunno della sua carriera aspetta un ritorno in scena che non arriverà mai.
C'è aria di voti da trovare, di seggi da assegnare, di poltrone da prospettare. C'è un presidente del Consiglio che si appella agli emarginati di Palazzo, spesso per problemi personali e politici, per proseguire un'avventura destinata al capolinea. Ed ecco la lusinga a coloro che potrebbero rianimare un governo rantolante soltanto pigiando il bottone verde del Sì in Aula. Cosa volete che sia?
Prima però bisogna presentare all'opinione pubblica un'operazione spregiudicata da Prima Repubblica, peraltro già collaudata nelle aule dei parlamenti risorgimentali. Trasformare voti inerti in energia vitale per fare funzionare un governo sfiduciato da tutti ma non ancora da quei 160-170 senatori che a turno lo sorreggono con iniezioni di fiducia. La prima fase è «ripulire» il peone, conferendogli l'aura di un soggetto politico «responsabile» che antepone l'amore per la Patria a qualsiasi convenienza personale. Il passo successivo è ancora più subdolo: trasformare il soggetto in questione addirittura in un «costruttore», uomo o donna pervasi da uno straordinario pragmatismo finalizzato al benessere del Paese. La fase finale, svolta rigorosamente nei separé, è la conversione del voto in una poltrona o altra utilità personale e politica.
Al premier Conte e al suo perenne gabinetto di guerra sfugge la macchia politica di un «costruttore», beatificato per calcolo di bottega e mondato dal suo passato di traditore. Il bacino da cui vuole pescare Palazzo Chigi è costituito da parlamentari che in un modo o nell'altro hanno disatteso il rispettivo mandato elettorale. Hanno lasciato il partito che li ha portati a Roma, magari passeranno in maggioranza lasciando il loro ruolo di oppositori. Ognuno adduce nobili motivazioni: ribellione verso soffocanti ordini di scuderia o denunce di malaffare interno. Poi spesso, gratta gratta, si finisce su storie di rimborsi non pagati o liti personali da retrovie. Ma come per incanto arriva il richiamo all'articolo 67 della Costituzione, l'assenza di vincoli di mandato, per regalare a tutti una dignità intoccabile.
La vita repubblicana in Parlamento è segnata da decenni da cambi di casacca nel nome della libertà di espressione. Lo sanno tutti e purtroppo tanti segretari di partito hanno alzato le spalle quando i loro deputati e senatori andavano e venivano, soprattutto verso nuovi governi in fase di costituzione.
Resta l'amarezza nel vedere la ricostruzione di un Paese segnato dal coronavirus affidata al reclutamento di furbetti presentati come i personaggi giusti del momento. Magari la probabile astensione di Italia viva in Senato renderà superflua anche questa compagine improvvisata e raccogliticcia. Di questi personaggi, ricordiamolo ha solo bisogno l'avvocato Giuseppe Conte, non gli italiani.
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