Prima, mentre era ancora in discussione, i magistrati hanno cercato di depotenziarne in tutti i modi possibili gli spunti più garantisti. Poi l'hanno subita, tra un mugugno e l'altro, convinti che fosse alla fine il minore dei mali. Ma appena hanno potuto, una volta cambiato lo scenario politico, sono tornati a fare la voce grossa. E alla fine l'hanno - per ora - avuta vinta.
La infelice storia della riforma Cartabia, quella che doveva cambiare dopo trent'anni il volto della giustizia italiana, non si capisce se non si analizza il ruolo che nella sua genesi ha avuto il peso delle toghe organizzate: le loro correnti, i vertici dei suoi uffici. Che hanno avuto un ruolo cruciale, nei lunghi mesi della gestazione, nel condizionare le scelte dell'allora ministra della Giustizia. Marta Cartabia (nel tondo) alla fine scelse di scendere a patti con i magistrati, di mediare con loro, rinunciando ai passaggi più avanzati del testo originario, convinta che fosse l'unico modo per portare a casa un risultato, e di poter lasciare nell'ordinamento una traccia innovativa e duratura. Si illudeva. Appena cambiato il governo, sono ricominciate le grandi manovre per stoppare l'entrata in vigore della riforma, coronate plasticamente dall'annuncio di lunedì sera di Giorgia Meloni: tutto fermo fino al 30 dicembre. Poi si vedrà.
A premere ufficialmente per il rinvio, secondo quanto rivelato dal presidente del Consiglio, la lettera firmata da tutti i procuratori generali d'Italia per chiedere il congelamento della riforma. Una iniziativa senza precedenti e anche un po' irrituale. Nell'entourage della Cartabia l'hanno presa male, anche perché le toghe sono rimaste zitte per tre mesi, con la legge già approvata e pubblicata, salvo svegliarsi all'ultimo momento: e, con l'alibi dell'emergenza, portare a casa lo stop non dei singoli articoli ma dell'intera riforma.
A colpire è l'alleanza che si è creata tra i procuratori generali - cioè i massimi gradi degli uffici giudiziari - e il sindacato delle toghe, ovvero l'Anm, che l'altro ieri festeggia come un successo l'altolà imposto alla Cartabia dalla Meloni e dal nuovo ministro Carlo Nordio. D'altronde nei giorni scorsi l'allarme sugli effetti che la riforma avrebbe avuto sugli uffici giudiziari era montato a dismisura. «La verità - dice un pm di una Procura del nord - è che fare una legge di questo impatto senza norme transitorie era una follia». Una follia su cui per tre mesi l'Anm e i procuratori generali hanno però taciuto.
Ma ora cosa accadrà, nei due mesi da qui alla nuova data prevista per l'entrata in vigore della riforma? Tra le toghe non è sfuggita la differenza di accenti che nella conferenza stampa di lunedì hanno avuto la Meloni e Nordio. Per il premier una delle misura della riforma è «diametralmente opposta» alla filosofia del governo, mentre il ministro si è espresso invece a favore: è l'articolo che rende procedibili alcuni reati solo in caso di querela, e porterebbe non solo a centinaia di scarcerazioni ma anche alla impossibilità di effettuare arresti in flagrante. E facile prevedere che in Parlamento, in sede di conversione, dalle fila della maggioranza partano emendanti per affossare definitivamente la norma. A quel punto potrebbe accadere di tutto.
E se salta l'intera riforma saltano anche le norme che le Procure temono più di tutte, anche se non lo dicono: quelle che mettono fine al malcostume delle inchieste aperte di nascosto, non iscrivendo gli indagati, ritardando la applicazione delle garanzie, e tenendole aperte all'infinito e senza controlli. Se salta anche quello, sarà l'ennesima prova del potere delle toghe.
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