A notte alta, tra domenica e lunedì, c'è il momento della foto di gruppo: Elly Schlein arriva in sala stampa al Nazareno per commentare «con grande soddisfazione e emozione» il risultato che si sta consolidando, e attorno a lei ci sono tutti: i capigruppo Boccia e Braga, i membri della segreteria, il presidente Pd Bonaccini.
Ieri, alla conferenza stampa post-voto, la leader si presenta da sola: giacca bianca, camicia grigia, viso abbronzato dalle «centinaia di ore passate sotto il sole, da una piazza all'altra, da un comizio all'altro», dicono i suoi. Il sorriso è smagliante: nessuno, neppure lei, si aspettava un risultato così rotondo e pieno, 24%, sopra la soglia delle scorse Europee che pareva irraggiungibile. E alla testa della prima delegazione nazionale nel Pse: 21 eletti contro i 20 della Spagna, con la possibilità quindi di prendere la guida del gruppo. Anche se, fino a sera, sull'elenco finale dei nomi degli eletti grava il giallo dovuto al tilt informatico che ha bloccato lo scrutinio a Roma (e le sorti del «pacifista» Marco Tarquinio, a lungo a rischio esclusione poi promosso per poche centinaia di voti), con il sindaco Gualtieri che non esclude addirittura «casi di cyberattack» con mani straniere (note le minacce russe) dietro al bug imprevisto.
Il piglio della segretaria, all'indomani del risultato, è già diverso: Schlein si sente rinsaldata, è meno sulla difensiva e più inclusiva, meno movimentista e più istituzionale: si sente già «l'anti-Meloni» («Stiamo arrivando, Giorgia»), il premier ombra che ha sbaragliato la concorrenza e ridotto ai minimi termini l'antagonista interno Giuseppe Conte. Anche sulla questione più scivolosa, quella della politica estera e dell'Ucraina, si tiene lontana dal pacifismo d'accatto della sinistra, dei grillini e anche di alcuni suoi candidati: «Continueremo a essere uniti per costruire una pace giusta in Ucraina come in Medio Oriente, mai metteremo in discussione il supporto a un popolo invaso in modo criminale». Schlein non si stanca di ripetere che è stato il suo afflato «unitario a essere premiato», grazie a «liste plurali» basate però su un «programma condiviso» per «tenere insieme il Pd senza rinunciare a un'identità riconoscibile».
Perché la leader ha vinto, ma a trascinare la sua vittoria è stato un fortissimo partito nel partito, quello dei sindaci e degli amministratori, di area per lo più riformista e non schleiniana: il grande exploit di Antonio Decaro al Sud (col Pd a Bari al 45% e lui che vola verso le 50), quello di Stefano Bonaccini nel Nordest, e poi Giorgio Gori nel Nordovest, Dario Nardella nel Centro, e tanti altri, come le uscenti Pina Picierno, Alessandra Moretti, Elisabetta Gualmini, Irene Tinagli. Alla fine «su 21 eletti - calcola un dirigente di area riformista - almeno 15 sono su posizioni saldamente filo-europee e filo-atlantiche, e sull'Ucraina non tentenneranno mai, e determineranno la linea». Ora si aprirà la partita per il posto di capogruppo: sembra ormai saltata l'ipotesi Zingaretti, Schlein vorrebbe la «sua» Camilla Laureti ma ha preso troppi pochi voti, quindi avanza l'ipotesi Bonaccini che, da ex avversario, si conferma come miglior interlocutore della leader per tenere la pace interna.
Anche il bottino nelle città va più che bene: a Bari vola il delfino di Decaro, a Firenze la successora di Nardella va forte al ballottaggio, a sorpresa il Pd conquista anche Perugia, con buoni auspici per le prossime regionali in Umbria e poi in Puglia e Toscana.
Resta il thrilling Tarquinio: l'ex direttore di Avvenire, «pacifista» anti-Ucraina, fino a sera era tagliato clamorosamente fuori a vantaggio di Alessia Morani. Poi è tornato in pista dopo ore di suspense per il blocco degli scrutini romani dovuti ad uno strano «bug» informatico.
«Attenti, Tarquinio è di Sant'Egidio, che nella Roma vaticana conta assai: se fai uno sgarbo a Sant'Egidio rischi guai», ironizzava in tv da Mentana l'ex direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli. Lo «sgarbo» alla fine è stato evitato.
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