Scrittore cristiano ucciso per vignetta anti-Isis

Nahed Hattar trucidato da un ex imam: invece di proteggerlo, il re l'aveva fatto arrestare

Gian Micalessin

Ad ammazzarlo ci ha pensato un militante dello Stato Islamico, ma a spingere lo scrittore giordano di fede cristiana Nahed Hattar davanti all'arma del suo assassino sono state le istituzioni del suo paese. Le istituzioni di una Giordania che pur combattendo l'Isis a fianco degli Stati Uniti, pur avendo visto un suo giovane pilota bruciare vivo per mano delle bestie del Califfato, non ha esitato a sbattere in prigione e trascinare in giudizio un intellettuale colpevole soltanto di aver postato su Facebook una vignetta in cui dileggiava non la religione islamica, ma il modo d'interpretarla dei folli dell'Isis. E così ieri mattina davanti al tribunale di Amman Nahed Hattar non ha incontrato il suo giudice, ma il suo boia. Un boia da poco rientrato dal fronte siriano, un boia in dishashada - la tunica lunga vestita dai fanatici salafiti -, un ex imam che non ha esitato a freddarlo a colpi d'arma da fuoco.

Ma la notizia non è che un fanatico musulmano uccida un uomo colpevole di essersi fatto beffe del suo credo. Questo succede anche in Europa. Il problema è come lo Stato giordano, il suo re Abdullah II, tenuto in palmo di mano dall'Occidente, la sua regina Rania spesso dipinta, anche in Italia, come modello di moderazione di fronte alle follie islamiste, non abbiano mosso un dito per lui. O, per contro, abbiano addirittura contribuito a isolare un intellettuale colpevole soltanto di opporsi alla follia jihadista, che minaccia lo stesso regno giordano.

Tutto inizia ad agosto quando Hattar posta su Facebook una vignetta - intitolata «Il Dio di Daesh» - in cui si vede un militante dell'Isis sdraiato con due schiave in una tenda-alcova. All'alcova s'affaccia un Allah servile e remissivo a cui lo jihadista dopo aver ordinato vino e noccioline - suggerisce di far montare una porta all'entrata della tenda perché così «potrai bussare invece di disturbarmi». Per quella vignetta, neppure disegnata da lui e subito cancellata dopo i primi strepiti islamisti, lo scrittore era stato immediatamente arrestato. E a nulla erano valse le pubbliche scuse con cui aveva spiegato di non volere dileggiare l'Islam, ma il modo in cui l'interpreta il Califfato. Dopo gli interrogatori Hattar era stato chiuso nella prigione di Amman con l'accusa di aver «istigato al razzismo e alla divisione settaria». Non soddisfatto il giudice istruttore l'aveva rinviato a giudizio anche per il crimine di oltraggio alla religione «avendo ignorato il divieto di pubblicare immagini rivolti a minare il credo religioso». Il tutto mentre sovrano e governo facevano intendere, malgrado il codice penale si basi sul diritto inglese e non sulla sharia, d'avallare le decisioni della magistratura.

Dietro quell'implicita condanna preventiva si nascondevano almeno due ragioni. La prima era il timore per la crescente ondata islamista all'interno del Paese che tiene in ostaggio la casa reale. Ondata confermata non solo dal ritorno in parlamento, dopo il voto del 20 settembre, dei Fratelli Musulmani, ma anche dall'ondata di messaggi postati su Facebook e Twitter con cui migliaia di islamisti inneggiavano ieri all'uccisione del «cane Hattar».

A spingere lo scrittore tra le braccia dei suoi assassini hanno sicuramente contribuito anche le sue ripetute prese di posizione a favore del regime siriano di Bashar Assad. Un regime che il cristiano Hattar considerava l'ultima diga contro l'avanzata dello Stato Islamico. Posizioni assai scomode all'interno di una Giordania schieratasi al fianco di Obama e distintasi per l'appoggio militare ai ribelli siriani. Posizioni costate la vita ad una delle ultime voci libere del Medioriente.

Una voce da sempre schierata a sinistra che sarà interessante vedere quanti all'interno di una sinistra italiana ed europea, assai intenta a flirtare con islamisti e Fratelli Musulmani, si prenderanno la briga di ricordare e commemorare.

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