La morte fa paura. La morte è un grande mistero e un grande tabù. La morte merita rispetto. Rispetto anche per chi scompare e chi rimane e soffre, ovvero i familiari. È sulla linea d'ombra fragile disegnata da questo rispetto che faccio una riflessione tutto sommato, almeno intellettualmente, irrispettosa.
Perché nel nostro mondo iperconnesso e ipervisibile, nel nostro mondo dominato dall'infosfera, coma la chiama Lucidi, studioso italiano che insegna a Oxford, abbiamo assistito a questo balletto di notizie sulla malattia di Marchionne? L'infosfera, per essere chiari, è quella determinata dalle ICT (Information and Communication Technologies). Un flusso di dati perenne insomma, dove ogni segno è dentro un sistema di reti globali. Per molti è la quarta rivoluzione industriale e anche culturale, quella che cambierà lo sguardo sul mondo e anche su noi stessi. Mentre scrivo, i monitor del mio ufficio sono invasi dalle immagini di Marchionne, sempre con il suo celebre maglione.
La notizia della morte è stata accompagnata da un'altra serie di rivelazioni sulla malattia che l'avrebbe ucciso ma manca un comunicato ufficiale. Ma anche arrivasse, il senso del mio ragionamento non cambia. La morte è una notizia che si può dare, che può finire nel marasma semiotico dell'infosfera, la malattia che porta alla morte no. Su quella è sceso, prima del decesso, il riserbo della famiglia e diciamo nel complesso dell'ambiente Fiat. Con alcune particolarità che ricordano le rivelazioni inconsce dei personaggi di Svevo. John Elkann già domenica scorsa ne ha parlato al passato. Marchionne è dunque morto prima nel linguaggio che nella normale fenomenologia biologica. Grande Stevens ha dato la colpa alle sigarette, e ha legittimato la parola demonio del positivismo moderno, il cancro. Come, anche uno dei manager più capaci, potenti e ricchi del pianeta può morire come un qualsiasi cittadino di tumore? Sì, certo, anche Steve Jobs, a cui non mancavano certo le disponibilità economiche per gli ultimi ritrovati o per medici di grido, è morto di tumore. Una piccola digressione, forse il cancro fa più paura della morte, perché ne rappresenta l'avvento sinistro in vita, costringe vittime e familiari a guardarla in faccia giorno per giorno fino al suo avvento. Traduco e banalizzo un pensiero di Heidegger: la morte non esiste, perché in quanto esperienza annulla l'essere e il soggetto che la prova. Con tutto il rispetto, ancora questo rispetto, per tutti i vostri punti di vista, nessuno dei vostri cari è davvero tornato per formalizzare l'esperienza non esperibile della morte. La morte in vita invece esiste e fa paura. Per Freud era la coazione a ripetere, forma circolare della nevrosi e della psicosi. Ma poiché la parola cancro non è presente ufficialmente in questa storia, fine della digressione. Col permesso di Grande Stevens continuo a macellare con la bocca un piccolo sigaro ma non l'accendo perché rispetto la policy aziendale più che per il timore polmonare. Torniamo allora alla parola, queste benedette parole, riserbo. Parola dal fascino ottocentesco scagliata nell'infosfera come una lussuosa barriera contro l'invadenza giornalistica.
Marchionne, uomo pubblico in tutto, uomo che invade con la sua morte i miei schermi, doveva finire nel riserbo. Perché? Perché non fare uno stringato comunicato sulle sue condizioni? Perché sono state autorizzate le peggiori congetture, che fosse già morto, che si dovessero fare prima operazioni di potere e di Borsa, che si dovessero coprire delle responsabilità? Ripenso allora a papa Wojtyla, al suo fare del corpo un messaggio perenne anche nella malattia. Al suo mostrarsi senza paura finché gli è stato possibile. Ho condotto come anchorman del Tg di Italia1 le lunghe straordinarie nei giorni dell'agonia, la commozione e l'angoscia della gente in Piazza San Pietro, il dispiegamento pazzesco dei media di tutto il mondo. E i comunicati del Vaticano che arrivavano puntuali. La Fiat ha un'indiscussa abilità nella comunicazione, ma il Vaticano non è da meno. Certo la famiglia di Marchionne ha tutto il diritto di gestire la sua privacy come crede. Non c'è un dover essere della comunicazione mondiale, tantomeno un potere senza limiti dell'informazione. Del resto comunicazione e informazione non combaciano con la carta carbone, né combaciano la cattiva e la buona informazione, quella che sa fermarsi, che sa usare la pietas. Tutto giusto, ma rimane in questa vicenda un'illogicità da cui trarre una nuova logica. Nell'odissea delle immagini di Marchionne rimane un'isola straniante, un buco, un silenzio: la sua malattia.
Forse allora l'uomo contemporaneo, quello che finanzia gli studi sull'immortalità nella Silicon Valley, ha più paura della malattia che della morte, considerata ancora ineluttabile? Sarebbe un cambiamento epocale, io nel mio piccolo dico che il non detto mi spaventa sempre di più dell'eccesso del dire. E che anche il semplice dire, quando è onesto, ha una sua bellezza morale. E fa bene alla democrazia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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