Senza l'aiuto europeo, il governo ha le armi spuntate

Per la lotta ai trafficanti serve una nuova Sophia e sui rimpatri mancano gli accordi necessari

Senza l'aiuto europeo, il governo ha le armi spuntate

Combattere i trafficanti, arginare gli sbarchi e, al tempo stesso, garantire i soccorsi ai migranti in mare. Ma anche provvedere ad un celere rimpatrio degli irregolari destinati altrimenti a restar per sempre nel Belpaese. Sono le gabbie in cui si dibatte un esecutivo che prometteva una stretta sugli sbarchi, ma fa i conti con una drammatica moltiplicazione degli arrivi accompagnata dai ricatti di un'opposizione pronta, pur di metterlo in croce, a danzare sui cadaveri dei morti in mare e a chiudere gli occhi sulle attività dei trafficanti. Per uscire dall'angolo l'esecutivo, riunito a Cutro, promette una lotta senza quartiere ai responsabili della tratta e la moltiplicazione dei Cpr, i Centri di Permanenza per i Rimpatri. Senza una concreta cooperazione europea entrambi i progetti rischiano però di rivelarsi irrealizzabili.

Partiamo dalla lotta ai migranti. Su questo fronte Giorgia Meloni ha in mente una soluzione capace di garantire sia la caccia ai trafficanti, sia i salvataggi in mare. Per realizzarla - come spiegò presentando il programma di governo - basterebbe una nuova versione di Sophia, la missione navale europea rimasta operativa dal 2015 al marzo 2020. Nei piani della Meloni la nuova missione garantirebbe non solo il salvataggio in mare, ma anche quella fase operativa, mai realizzata con la prima Sophia, che prevedeva l'impiego di assetti militari per combattere i trafficanti sulle coste libiche. Il progetto, per quanto sensato, sconta la riluttanza dei partner europei poco disposti a resuscitare una missione che richiederebbe non solo un impegno militare, ma anche la disponibilità a ripartirsi i migranti anziché scaricarli, come in passato, nei porti italiani. Quel precedente rischia di minare anche la compattezza della maggioranza. Nel 2020, infatti, Matteo Salvini fu tra i primi ad invocare la fine di un'operazione responsabile dell'arrivo in Italia dei 13mila migranti recuperati in quattro anni di attività nel Mediterraneo.

Il secondo capitolo del piano basato sull'intensificazione dei rimpatri rischia di rivelarsi altrettanto complesso. Il decreto messo a punto a Cutro prevede l'ampliamento dei 10 Cpr capaci di ospitare oggi fino a 1378 persone e l'allungamento da tre a sei mesi dei tempi di detenzione. L'apertura di un Cpr in ogni regione e il raddoppio dei tempi di detenzione non garantiscono però il superamento delle difficoltà che oggi vanificano il rimpatrio di almeno un irregolare su due. Il problema principale resta la mancanza di accordi di rimpatrio con molti paesi d'origine. L'Italia conta oggi solo sulle quattro intese sottoscritte con Tunisia, Marocco, Egitto e Nigeria. Intese che spesso prevedono finanziamenti assai esosi e poco compatibili - vedi i 47 milioni di euro elargiti dal 2014 alla Tunisia - con il numero di irregolari rispediti a casa. E a rendere il tutto più complesso contribuisce l'inerzia europea. Nonostante l'incomparabile peso negoziale l'Ue vanta ad oggi solo 24 fra accordi e meccanismi di riammissione con paesi d'origine e stenta a chiudere i negoziati con altri sei Paesi (Algeria, Tunisia, Marocco, Giordania, Cina e Nigeria). Un'attività politicamente modesta a cui s'aggiunge l'inefficienza di Frontex, l'agenzia europea per le frontiere che nel 2022 ha ricevuto 110mila richieste di rimpatrio, garantendone però appena 32mila.

Un macigno in più sulle spalle del nostro governo che - in assenza di un coordinamento e di una collaborazione europea - rischia di non riuscire a rimandare a casa gli irregolari neppure con il raddoppio dei Cpr e dei tempi di detenzione.

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