Si merita lo scudo chi ce l'ha messa tutta

Accettare razionalmente un lutto è un procedimento molto difficile. La psicologia chiama questo modo di riflettere «elaborazione di un lutto», proprio perché subentrano delle componenti da elaborare complesse che coinvolgono la ragione

Si merita lo scudo chi ce l'ha messa tutta

Accettare razionalmente un lutto è un procedimento molto difficile. La psicologia chiama questo modo di riflettere «elaborazione di un lutto», proprio perché subentrano delle componenti da elaborare complesse che coinvolgono la ragione, i sentimenti, gli affetti delle persone che ci stanno vicino. In questo processo di elaborazione, tanto più la colpa del decesso è comprensibile razionalmente, quanto più la perdita diventa più facile da accettare, elaborare.

Siccome il ragionamento che cerco di fare non è semplice, mi permetto di farvi partecipe di una tragedia personale. Di recente, mia sorella e suo marito sono stati ammazzati da un automobilista mentre attraversavano la strada sulle strisce pedonali. È passato un paio d'anni, quel lutto non l'ho per niente elaborato. Vi dico di più: qualche volta continuo a rammaricarmi per una giustizia che ritengo di non aver avuto.

I parenti delle vittime falciate dal coronavirus, li comprendo profondamente nelle loro proteste e richieste di giustizia. Ma per avere giustizia ci deve essere l'obbiettività di una colpa e, quindi, l'esistenza di un vero colpevole.

Ciò che ha dimostrato questa pandemia, è il fatto che essa sia stata non soltanto un problema sanitario, ma anche un problema di comunicazione. Inutile soffermarsi su situazioni che conosciamo tutti: le affermazioni e le revoche, gli ordini e i contrordini sull'entità del virus, sulle mascherine, i guanti e tutto il resto. Ora i parenti dei deceduti di coronavirus vogliono la verità sulla sorte dei loro cari, si chiedono se la loro morte potesse essere evitata. Protestano perché la comunicazione dei media perlopiù sostiene che in Lombardia ci siano stati gravi inadempienze nel modo di affrontare la malattia.

Che in questa regione qualcosa di importante non abbia funzionato, lo affermano i numeri, le statistiche, e, se si accertassero responsabilità oggettive da parte degli amministratori regionali o nazionali e dei sanitari, costoro andranno perseguiti. Tuttavia, mi si permetta il raffronto: un medico, un amministratore che hanno affrontato un virus poco conosciuto nella sua realtà e nei suoi effetti, sono oggettivamente responsabili come quella persona che guidava l'auto, con cui ha falciato in un colpo solo la vita di mia sorella e di suo marito? Non credo proprio.

Però mi si può obiettare che appena adesso ho sostenuto che medici e amministratori possono essere incorsi in «gravi inadempienze». E, dunque, perché quelle inadempienze non dovrebbero essere punite? Ma se queste inadempienze fossero dovute alla scarsa conoscenza dell'epidemia da parte di medici e amministratori, loro sarebbero ancora da perseguire penalmente? La questione è tutta qui. Il magistrato può solo andare alla ricerca di responsabilità di colpe oggettive, tutto il resto appartiene alla dimensione personale di chi ha avuto un proprio caro morto per coronavirus, ed è questo «resto» che costituisce la complessità del problema, perché in esso c'è il dolore, la rabbia, la malinconia, il desiderio di giustizia.

Amministratori pubblici e personale sanitario erano di certo impreparati ad

affrontare un'eccezionale e sconosciuta pandemia: ma se loro, pur con le carenze delle loro competenze, ce l'hanno messa tutta, non sono colpevoli, a meno che non affermiamo che sia una colpa essere ignoranti in buona fede.

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