Chissà, forse ci siamo un tantinello distratti. O magari ogni volta lo abbiamo chiamato in modo diverso: la forza Silvio, l'effetto Romano, la sorpresa Giorgia. Perché poi, scavando un po' nei fumi polemici e nelle dispute erudite dei costituzionalisti, ci si accorge, tenetevi forte, che in Italia il premierato esiste già da una trentina d'anni. Si fa presto infatti a parlare di un leader indicato dalla gente, a sognare un governo scelto dai cittadini. Ma Berlusconi, Prodi, la Meloni stessa, non sono forse arrivati a Palazzo Chigi dopo un'investitura popolare? Non avevano il nome sulla scheda? Non hanno preso la guida del Paese dopo aver vinto le elezioni? E quindi, si potrebbe aggiungere con un paradosso, a che serve la riforma? Solo ad evitare esecutivi tecnici? Non bastava una norma anti-ribaltone? O, all'opposto: perché scandalizzarsi per un premierato che da «di fatto» diventa «di diritto»?
Un voto unanime del Consiglio dei ministri, una prima mediazione interna già raggiunta, «l'interlocuzione con Il Quirinale» debitamente avviata, anche se Mattarella non si pronuncia su un testo provvisorio e aspetta gli sviluppi. Seguiranno dibattiti, liti, scambi d'accuse tra maggioranza e opposizioni, l'intreccio da costruire con l'autonomia regionale che vuole la Lega, trattative più o meno segrete, accordi da trovare sulla legge elettorale e sul premio di coalizione, una doppia lettura parlamentare con possibili quasi sicure correzioni e conseguenti ritorni alle Camere, il vaglio della Consulta, le osservazioni del Colle. Due anni, prevedono gli ottimisti, che per la politica equivale a un'era geologica.
Tutto ciò per un qualcosa che c'è già, che dal 1994 è entrato nel dna degli italiani. Basta pensare alla storica discesa in campo del Cavaliere, alla sua netta affermazione ai seggi con la sconfitta della gioiosa macchina da guerra capitanata da Achille Occhetto: Oscar Luigi Scalfaro certo non era un suo simpatizzante, però a chi altri poteva dare l'incarico di formare il governo? E nel corso dei decenni a cavallo del 2000 la stessa situazione si è sempre ripetuta. Berlusconi, Prodi, Berlusconi, Prodi: ogni volta che si è votato, il presidente della Repubblica del momento non ha mai dovuto lambiccarsi per trovare l'uomo a cui affidare il mandato. Chi ha vinto si è poi traferito a Palazzo Chigi. Unica recente eccezione, lo stallo del 2013, con Bersani impantanato nell'inutile negoziato in streaming con i grillini.
Quindi, verrebbe da dire, sono eccessivi gli allarmi di chi pensa che Il premierato riduca i poteri del capo dello Stato. «Ma di cosa parliamo? - dice Ignazio Larussa al Corriere - Quando mai un presidente non ha nominato un leader dopo una sua vittoria chiara alle urne? Due volte Prodi, due volte Berlusconi e la Meloni lo testimoniano». Il problema dunque e quando cade un governo e non si vota.
E lo stesso argomento, rovesciato, viene usato da chi è contrario. La vera riforma Giorgia, si sostiene, l'ha già fatta stravincendo le elezioni, l'incarico non poteva che andare a lei, impossibile che Mattarella scegliesse qualcun altro. Infatti le consultazioni sono state poco più di una formalità burocratica.
Come pure il voto di fiducia in Parlamento: il Rosatellum ha attribuito al centrodestra un premio di maggioranza largo e comodo. Se non ci saranno spaccature interne, Giorgia può durare l'intera legislatura. L'esecutivo è solido e se perderà saldezza sarà per motivi politici e non di struttura istituzionale. Si, vabbè, ma i ribaltoni?
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