Quasi 100mila euro spesi per compensare gli stipendi dei dipendenti in cassa integrazione e riportarli al loro ammontare originale. La metà, però, se li è mangiati lo Stato in tasse e contributi. Ecco perché Paolo Zanchetta, imprenditore veronese titolare della Troll System, azienda produttrice di schede elettroniche, si sfoga con Il Giornale.
Signor Zanchetta, perché ha integrato il reddito dei suoi dipendenti?
«La cassa integrazione comporta una sorta di diga a 1.100 euro netti mensili. Non si porta a casa l'80% dello stipendio, ma una cifra parametrata alla retribuzione lorda, una circostanza pesante per alcune posizioni. Una dipendente si è separata, vive da sola col figlio, con uno stipendio deve pagare l'affitto e mantenere il ragazzo. La cig le porta via 300 euro al mese. Questo mi ha fatto scattare una molla e ho detto al mio commercialista di corrispondere lo stesso netto di quando percepivano lo stipendio intero».
Per compensare il netto, però, ha dovuto pagare Irpef e contributi.
«Un operaio con 13 anni di anzianità di servizio percepiva 1.740 euro lordi di retribuzione ordinaria. L'integrazione salariale a zero ore di giugno è stata di 1.088 euro. L'integrazione facoltativa è di 702,47 euro, dunque ben più dei circa 500 euro che servivano per raggiungere lo stipendio netto pre-lockdown. Un ingegnere progettista con 2.733 euro di retribuzione lorda, che ha lavorato 14 giorni su 26, ha subito una trattenuta di 1.421 euro per la cassa integrazione. La compensazione di 797 euro, a causa di tasse e contributi, è diventata di 1.050 euro».
Quanto ha speso in tutto?
«Ho iniziato a compensare le retribuzioni di aprile includendo le due settimane di cassa integrazione a marzo e versando 44.600 euro. A fine giugno il totale è di 95.000 euro».
È la cifra che avrebbe stanziato per compensare fino a fine anno?
«Ho speso, grosso modo, 47.500 euro per compensare e 47.500 destinati allo Stato in tasse. Senza quel prelievo avrei potuto continuare fino a Natale. Avrei potuto fare del nero per le compensazioni, ma io non voglio evadere, ho pagato tutte le tasse ma sono incazzato perché è una vergogna, succede solo in Italia».
Quindi si fermerà?
«Compenserò anche luglio versando 28-30.000 euro. Dopo temo di non poter più intervenire perché stiamo registrando un calo del fatturato del 70 per cento. Il volano di liquidità dei primi due mesi dell'anno, andati molto bene, si sta esaurendo. Pensavo di superare il tetto dei 10 milioni di fatturato, ma adesso anche un dimezzamento a 4 milioni di euro sarebbe un successo».
Quali sono le prospettive adesso?
«I dipendenti resteranno in cassa integrazione. Se lo Stato non aiuterà le imprese concedendo un po' di tregua sulle scadenze fiscali, sarò costretto a licenziarne almeno cinque».
Ha ricevuto qualche altro sostegno pubblico?
«La manovra poderosa di Conte non l'ho vista. Con 8 milioni di fatturato non ho diritto ai contributi a fondo perduto, non ho visto i 600 euro perché non sono una partita Iva. Speravo nel buono monopattino ma vivo a Legnago che non rientra tra i destinatari».
E i prestiti garantiti?
«La garanzia al 90% è una balla. Si garantisce solo la banca. Se le aziende ripagano, lo Stato non spende nulla».
È difficile fare impresa nell'Italia post-Covid?
«L'Austria meridionale sta corteggiando la mia impresa. Quasi quasi ci penso su».
A Legnago, per scherzo, la chiamano «comunista».
«Sono un uomo di centrodestra.
L'ho fatto perché i miei dipendenti sono fantastici e, siccome sono in difficoltà, l'ho ritenuto giusto e le cose giuste non sono né di sinistra né di destra. Pd e Cinque stelle sbandierano di essere dalla parte dei lavoratori e non fanno assolutamente nulla».
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