Strage di bimbi cristiani Raffiche di kalashnikov contro un bus in Egitto

Il raid compiuto dalle Bandiere nere a Menya nel deserto. I testimoni: «Filmato il massacro»

Strage di bimbi cristiani Raffiche di kalashnikov contro un bus in Egitto

Un autobus crivellato di colpi, sedili imbrattati di sangue, cadaveri allineati nella polvere del deserto, poveri resti nascosti alla vista da coperte e teli di plastica. È tutto quel che resta dell'orrore di Menya, un «non luogo» nel deserto, 250 chilometri a Sud del Cairo, dove una decina di jihadisti ha celebrato l'inizio del mese santo del Ramadan attaccando a colpi di kalashnikov due autobus pieni di cristiani copti diretti al monastero di Anba Samuel. Non fatevi distrarre dalla lontananza, dalla scarsa familiarità di quei luoghi, dalla loro apparente estraneità. La strage messa a segno tra i sassi del deserto di Menya non è diversa da quella di Manchester. Anche in questo caso tra le vittime delle bestie islamiste ci sono tanti, troppi, bimbi innocenti. Il numero esatto ancora non lo si conosce. Stando alle informazioni diffuse ieri pomeriggio da Anaba Ermya, ex portavoce della chiesa copta le vittime sarebbero in tutto 35.

Sul portale internet dei «Copti uniti» campeggia però un'informazione agghiacciate. «Solo tre bimbi sopravvissuti». Insomma i morti in giovanissima età potrebbero essere decine. I pochi sopravvissuti alla strage ricordano in lacrime la spietata determinazione del commando di dieci uomini in divisa paratisi davanti a quei due pullman. Un commando che prima apre il fuoco sui conducenti e sui pneumatici, poi infila sventagliate di proiettili all'altezza dei passeggeri e, infine, sale sui pullman sfinendo chiunque dia ancora segni di vita, bambini e donne compresi. Il tutto mentre un componente del commando documenta la carneficina con una videocamera. Il filmato di quell'ecatombe correderà quasi sicuramente la rivendicazione con cui la costola egiziana dello Stato Islamico rivendicherà il massacro.

Un massacro che si aggiunge a quello del 9 aprile, quando le bombe del Califfato colpirono due chiese copte a Tanta e ad Alessandria durante le celebrazioni della domenica delle Palme, causando 44 morti e più di 100 feriti. Stavolta il massacro era annunciato. Al-Naba una pubblicazione dell'Isis già tre settimane fa raccomandava ai musulmani di tenersi alla larga dai raduni di cristiani e dalle sedi istituzionali.

Ma non è l'orrore, o almeno non solo questo, che deve turbarci. Non è la crudeltà, o almeno non solo questa, che deve farci sussultare e sdegnare. A legare Menya a Manchester non è solo l'abominio, ma il disegno complessivo. Macellando i bimbi di Manchester vogliono portare la paura nelle nostre città, condannarci all'insicurezza quotidiana, costringerci a sopravvivere con l'umiliante sensazione di non controllare più la terra in cui siamo nati. Colpendo Menya vogliono espellere dall'Egitto e dal Medioriente i cristiani copti. Ma l'equazione e l'obbiettivo non cambia. Quei cristiani non sono una curiosità etnografica, non sono soltanto il dieci per cento su 92 milioni egiziani. Quei cristiani, presenti in Egitto sei secoli prima dell'arrivo dell'Islam, sono i nostri fratelli nella fede, sono un pezzo della nostra storia e della nostra tradizione. Se colpiscono loro non possiamo voltare la testa dall'altra parte perché l'obiettivo, alla fine, siamo sempre noi.

Costringendo alla fuga i cristiani d'Oriente il terrore islamista non celebra solo il Ramadan, ma apre la strada a un'omogeneità religiosa e culturale di un Egitto e di un Medio Oriente piegati alla violenza e all'odio delle Bandiere Nere. A subirne le conseguenze, però, saremo sempre noi. Perché se non sapremo dimostrare di esser pronti a difendere in nostri fratelli d'Egitto e di Siria non sapremo neppure difendere noi stessi.

E allora quelli che oggi s'accontentano di spargere il terrore a Manchester, Parigi, Berlino, Nizza e Bruxelles si sentiranno autorizzati al passo successivo. E noi dovremo lottare per non esser cacciati dalle nostre stesse città.

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