Ieri a metà pomeriggio Silvio Berlusconi ha ricevuto una telefonata da Matteo Salvini nella sua suite al San Raffaele per fare il punto sul Quirinale. I due hanno parlato dello scrutinio del mattino in cui la coalizione che il Cav ha fondato si è presentata divisa, della difficoltà di portare avanti una candidatura targata centrodestra, dell'esigenza di mantenere Draghi a Palazzo Chigi per non mandare all'aria il governo in una fase così difficile e della possibilità di trovare un'intesa con il centrosinistra su un nome. Il Cav ha salutato il suo interlocutore con una frase piena di saggezza: «Ricordati Matteo: un pareggio è sempre meglio di una sconfitta».
Al mattino altro dato di cronaca importante: sempre sul filo del telefono, Mario Draghi ha avuto un chiarimento con uno dei papabili per il Colle, Pier Ferdinando Casini. Una chiacchierata per cancellare gli screzi che accompagnano la competizione tra due persone che si conoscono da quarant'anni. Casini gli ha chiesto se avesse dei problemi sul suo nome e il premier, da uomo di potere avvezzo a conversazioni di questo tipo, gli ha risposto: «A me andrebbe bene un Mattarella bis, una presidenza Amato, come qualsiasi altro. Ti posso assicurare che non avverso nessuno».
Addirittura, poi, c'è stata un'ipotetica telefonata che se ne è portata indietro un'altra nel rispetto della tradizione grillina in cui tutto è confuso. È uscita la notizia che Beppe Grillo avesse ordinato sul filo di lana a Luigi Di Maio di sponsorizzare la candidatura di Draghi al Quirinale. Conte, per sincerarsene, ha chiamato al telefono l'Elevato, che sempre nel rispetto della storiografia 5stelle gli ha detto tutto il contrario: «Draghi deve restare dov'è».
C'era uno spot pubblicitario di una compagnia telefonica che recitava «una telefonata allunga la vita». Invece, nel gioco impazzito di queste giornate, sul filo telefonico, pardon sulle onde magnetiche dello smartphone, si elegge il nuovo capo dello Stato. Ovviamente, le telefonate sono molteplici, registrano alti e bassi, a volte non sono vere, altre restano segrete, di certo però hanno sostituito nel terzo millennio gli incontri riservati. Più semplici, più veloci. Specie quando il rebus è complicato come l'elezione di un presidente della Repubblica dove i colpi di scena sono all'ordine del giorno. Ieri, ad esempio, nessuno si aspettava il colpo basso che la Meloni ha rifilato al centrodestra, presentando unilateralmente un suo candidato, Guido Crosetto. Un'operazione che ha mandato all'aria la strategia della coalizione che Matteo Salvini aveva pianificato. Il leader della Lega aveva in mente di presentare un candidato del centrodestra, magari la Casellati, portarlo in aula e se bocciato presentare un'ipotesi di mediazione con il centrosinistra, tipo Pier Ferdinando Casini. «Prima proviamo con lei - aveva spiegato il giorno prima - se riesce portiamo a casa un successo storico come coalizione. Se non riesce passiamo a un nome di compromesso. Casini o altri». La sortita della Meloni ha reso molto rischiosa l'operazione.
Così i telefoni sono tornati a squillare. Anche perché tra le ambizioni del premier, i dilemmi del centrodestra e le difficoltà di Enrico Letta, il puzzle si è fatto sempre più complesso. Immaginate il povero segretario del Pd alle prese con le questioni poste da Draghi. Prima la voglia dell'ex governatore della Bce di salire sul Colle più alto. Poi le condizioni nel passaggio ad altri nomi: «Mattarella bis o Amato». Roba da diventare matti. Tant'è che alla fine uno degli altri protagonisti di questa crisi nella terra di «centro» se l'è presa con il grande consigliere del premier Antonio Funiciello: «Draghi se non andrà al Quirinale lo deve solo a lui. Ai suoi errori».
Alla fine Enrico Letta si è ritrovato in mezzo alla morsa di chi non voleva mandare il premier al Quirinale o, comunque, non si sarebbe sacrificato per aiutarlo: Giuseppe Conte, Dario Franceschini e Matteo Renzi.
Salvini, vista l'inaffidabilità della Meloni, ha dialogato proprio con quel gruppo, con chi non voleva Draghi. Ha tentato di tenere in piedi una coalizione che purtroppo è minata da troppe ambizioni individuali, ma ha anche cominciato ad immaginare una via d'uscita. Lui era partito con un'idea in testa: o riusciva Silvio Berlusconi, o si tentava con Letizia Moratti. Ma Letta e la sinistra hanno usato la tecnica del carciofo, ponendo veti uno dopo l'altro. In più le divisioni interne hanno sconsigliato di tentare l'impresa.
Costretto, a malincuore, ha esplorato una subordinata. «Se sei tu a ipotizzare il nome di Casini - ha spiegato Matteo Renzi al leader della Lega - di fatto mantieni il ruolo di kingmaker. Io non posso lanciarlo altrimenti lo affosso, ma se tu non lo fai rischi di subire il suo nome o quello di qualcun altro. Inoltre si può dare una prospettiva politica ad un'operazione del genere con un accordo che preveda tra sette anni l'elezione diretta del presidente nell'ambito di una grande riforma costituzionale. Sarebbe un successo non da poco».
Insomma, a ieri sera la situazione era ancora confusa, anche se la necessità di trovare un'intesa larga è la strada meno rischiosa per tutti. L'ultimo ostacolo è arrivato dal presidente del Senato che ci aveva creduto. Per tutto il giorno la Casellati aveva ripetuto speranzosa nei saloni di Montecitorio: «Vediamo che succede...».
Così, prima di una di quelle notti quirinalizie dove può succedere di tutto, il centrodestra aveva
immaginato di presentare due nomi a Enrico Letta e ai suoi alleati: Elisabetta Casellati per la difesa dell'identità della coalizione; Pier Ferdinando Casini come possibile compromesso. Vedremo se la notte porterà consiglio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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