Lo jihadismo si inserisce negli spazi vuoti che la geopolitica ci ha consegnato in questi anni: il Medio Oriente, lo Yemen, la Libia, il Sinai, la fascia del Sahel, le ex Repubbliche asiatiche sovietiche che confinavano con l'Afghanistan; c'è poi il Corno d'Africa: la Somalia, il Sudan, il Sud Sudan. Oggi, senza dubbio, siamo di fronte ad una endemizzazione del terrorismo nelle aree geografiche degli spazi vuoti. In particolare, bisogna porre l'accento su due aree: in Asia, sulle ex Repubbliche Sovietiche ci sono segnali di fortissima radicalizzazione che vanno dalla provincia uigura della Cina a zone del Turkmenistan, del Tagikistan, dell'Uzbekistan. L'altra grande fascia è quella africana del Sahel. Esiste ormai una fascia sub-sahariana che va dalla Mauritania fino al Golfo di Aden, arrivando in Sudan con la Somalia, e che riguarda il Sahel e tutta la zona a ridosso del Maghreb che è estremamente animata da gruppi terroristici legati ad Al Qaida e a Daesh, oltre che ad altre formazioni spontanee connesse al ribellismo locale. Queste due aree rischiano di essere i nuovi fulcri della crescita del terrorismo.
Appare poi sempre più evidente che le vicende connesse alla guerra in Ucraina aprono risvolti inquietanti. Due sono le aree che preoccupano: il Caucaso e i Balcani che, per ragioni e motivazioni diverse, hanno rappresentato negli ultimi vent'anni zone nelle quali il jihadismo ha attecchito particolarmente. Non sono degli spazi vuoti classici di ordine geopolitico; sono zone nelle quali si mischiano diversi fattori, perché si tratta di aree il Caucaso per l'influenza russa e turca e i Balcani per i trascorsi delle guerre della ex Jugoslavia nelle quali c'è stata una vera e propria frattura. Sono luoghi nei quali la religione è contesa fra la parte musulmana e quella ortodossa, in cui lo scontro identitario ed etnico ha avuto delle punte di grandissima tensione, mai sopite, e che oggi possono rappresentare un lievito molto importante per il jihadismo.
Nel Caucaso esiste da anni la questione cecena. I ceceni oggi sono fortemente implicati nelle vicende ucraine grazie all'impegno che Kadyrov ha messo al fianco di Putin contro l'esercito ucraino, e anche grazie allo speculare atteggiamento di una parte del mondo radicale musulmano ceceno che ha deciso di combattere contro Kadyrov al fianco degli ucraini. Questo rischia di sommarsi al fatto che una parte consistente della diaspora cecena nel mondo occidentale ha intrapreso in questi anni un percorso di radicalizzazione e nello stesso tempo si è fortemente implicata in dinamiche di illegalità traffico di armi, di droga e prostituzione in vari Paesi europei. Se queste sono le aree dove si produce il terrore, bisogna chiedersi quali saranno le piazze dove si manifesterà.
Il terrorismo, che dopo l'avvento della jihad mediatica ha bisogno di un palcoscenico per funzionare al meglio, può trovare questa dimensione soltanto in Europa. Perché l'Europa è il luogo nel quale oggi passano tutte quelle contraddizioni lo scontro tra sovranismo e democrazia, una certa idea di società sospesa fra contrasto e inclusione che contribuiscono ad amplificare le reazioni suscitate dalle dinamiche terroristiche. Sarà una stagione nella quale il tentativo di compiere attentati strutturati e organizzati convivrà con attentatori singoli, lupi solitari e tentativi di attacchi artigianali e rudimentali.
Quello che conta è alimentare la sensazione di insicurezza alla base della logica dello scontro interno ad una società che vorrebbe recuperare l'identità propria della cultura europea, in antitesi all'emergere di un radicalismo che si vuole associare all'immigrazione e alla presenza di popolazioni provenienti dal Sud del mondo. È proprio questa dinamica che fa dell'Europa il palcoscenico naturale del terrorismo. Per vincere questa sfida bisogna investire nella prevenzione: se si dovesse inquadrare la minaccia più grande per l'Europa questa sarebbe la capacità del jihadismo mediatico di attrarre proseliti nelle nuove generazioni, un esercito di simpatizzanti che possono potenzialmente passare all'azione ed essere il carburante della volontà esterna che proviene da questi nuovi spazi vuoti e da questi nuovi scenari del terrorismo di colpire l'Europa. Per questo è molto importante che si prosegua sulla via della prevenzione, così come molto saggiamente ha detto l'Europol nel suo ultimo rapporto, e come sosteniamo da anni.
Ci sarebbe bisogno di compiere diverse azioni: la prima è dotare l'Italia di uno strumento di prevenzione e renderlo parallelo al decreto antiterrorismo. E, allo stesso modo, se si vuole vincere la radicalizzazione e risolvere i problemi che possono potenzialmente provenire dall'altra sponda del Mediterraneo, bisogna trasformarli in opportunità e investire sulla prevenzione e su dinamiche di aiuto. È un'idea alta che dovrebbe coinvolgere l'Italia e l'Europa. In secondo luogo, c'è bisogno di uniformare, o almeno di rendere compatibili tra loro, le dimensioni legislative legate al terrorismo fra i Paesi europei e i Paesi della Nato. Tutti gli Stati dovrebbero sviluppare una dimensione sia repressiva che preventiva della loro legislazione, e far sì che le prassi operative si assomiglino.
Non basta la cooperazione tra forze di polizia e intelligence: c'è bisogno di strumenti simili che possano essere usati con analogia, che siano ispirati agli stessi principi e alle stesse modalità operative, e che non riguardino solo la sfera dell'antiterrorismo ma anche altri aspetti normativi e non solo. È necessario, da questo punto di vista, che vi sia in Europa uno standard operativo per avere un antiterrorismo più efficace. Questa prassi dovrebbe estendersi alle zone vicine e più preoccupanti, in primis ai Balcani.
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