Non era un vestito tradizionale somalo, quello indossato da Silvia Romano al suo arrivo in Italia. «Non ha nulla di somalo» ha scritto Maryan Ismail, musulmana e attivista per i diritti delle donne, in una lettera indirizzata alla giovane milanese ostaggio del gruppo jihadista «Al Shabab». «Non mi piacciono per nulla le discussioni sul suo abito (che non ha nulla di somalo, bensì è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza) né la felicità per la sua conversione da parte di fazioni islamiche italiane o ideologizzati di varia natura».
La Somalia «tradizionale» erano drappi sgargianti, sete preziose e colorate che esaltavano le donne. Non i veli plumbei che oggi le mortificano. Ora quella Somalia non esiste più, se non nel cuore di chi l'ha vissuta. «Non siamo noi le straniere» dice Layla Yusuf imprenditrice italo-somala, da molti anni nel nostro Paese. «Sono cambiati gli altri, noi siamo rimaste uguali. Portiamo i capelli scoperti se vogliamo, scegliamo liberamente i vestiti. Facciamo qui quello che si faceva allora. Era una vita bella e felice, ora è drammatica».
Mogadiscio ora è ostaggio degli islamisti. Allora c'erano due chiese cattoliche, una sinagoga, un tempio induista e uno buddista. Ciascuno pregava il suo Dio. Poi è arrivata l'onda nera, la cappa jihadista che ha soffocato un popolo. Chi ha visitato Mogadiscio negli anni Sessanta e Settanta conserva un ricordo opposto, il ricordo dei colori, delle botteghe di stoffe con rotoli variopinti provenienti perfino dall'India. La Somalia tradizionale era quella in cui eserciti di sarti erano chiamati a soddisfare le richieste di matrone, figlie e amiche. Una società matriarcale. «A casa mia comandava mia madre - racconta Layla - mio padre lavorava fuori e gestiva tutto lei. Sono sempre state matriarche. Guidavano casa e famiglia. La nostra Africa non c'entra niente con gli arabi, nella nostra tradizione ci sono i vestiti colorati delle donne, come il guntino, elegante fatto e a mano, che si usava normalmente o anche nelle cerimonie, di seta». Così è stato fino alla fine degli anni Ottanta. Poi la guerra civile: «Quella che abbiamo vissuto noi, e poi questa onda nera da cui non siamo usciti. Prima c'era la libertà, alcune donne si coprivano sì, ma con vesti colorate. Quello che aveva addosso Silvia è arrivato dopo, la mia generazione non l'ha visto. Siad Barre, l'ultimo dittatore, teneva testa agli islamisti. Quando sono usciti di scena i regimi socialisti, i Fratelli musulmani hanno trovato terreno fertile, e le prime vittime sono state le donne». «Nel 1990 - ricorda l'imprenditrice - sono venuta in Italia per sei mesi. Al mio ritorno in Somalia molte cose erano cambiate. Mio padre mi disse che non potevo guidare come prima: Se vedono una donna sola la fermano, e la picchiano se ha i capelli scoperti. Iniziava il caos. Un mese dopo è iniziata la guerra. Tutto è cambiato totalmente. Sono comparsi gli wahabiti, noi li chiamavano Salamaleikum perché non usavano saluti somali. All'inizio lo facevamo ironicamente, erano una minoranza, poi piano piano in un Paese sbandato la minoranza siamo diventati noi. Ti dovevi coprire da capo a piedi, come le saudite, perché alla fine è questo che interessa loro. Non è fede ragionata, solo lavaggio del cervello. E questa moda di coprirsi ha dilagato alla fine anche nella diaspora, e quelle che di noi hanno continuato a vestirsi normalmente, hanno cominciato a essere stigmatizzate, denigrate come troppo occidentali. Un gruppo di ragazze tornate a visitare il Paese d'origine ha creato scompiglio, solo perché erano vestite con jeans, maglietta e con un foulard». «Fra i nostri figli però c'è un cambiamento: oggi quelle come me e Maryan sono ammirate». Resta l'incomprensione della politica italiana. E Layla fa politica.
«Da una parte, a destra, vedo confusione e vorrei vedere una destra liberale - ammette - ma dall'altra parte mi viene la rabbia, semplificano la questione delle donne musulmane, non capiscono l'islamismo, lo negano, non vogliono vederlo, non vedono le donne oppresse».
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