Scattata la tregua sul campo, al tacer delle armi si scatena la giurisprudenza. E fioccano i distinguo sul «caso Bibi». Il premier israeliano colpito da mandato d'arresto internazionale emesso dalla Corte penale dell'Aia per presunti crimini di guerra a Gaza ieri è passato al contrattacco. «Emissione priva di qualsiasi base fattuale o legale», fa sapere il suo ufficio politico, annunciando sul filo di lana il ricorso per confutare sia il provvedimento che prende di mira il ministro della Difesa Gallant sia quello relativo al premier stesso.
Almeno finché è in carica, sostiene il ministro degli Esteri Tajani, per Netanyahu il mandato d'arresto è inapplicabile. Ieri al question time Tajani ha infatti chiarito che il governo italiano sta esaminando «in dettaglio» le motivazioni della sentenza. Pur riconoscendo l'autorità della Cpi, parla di «approfondimenti giuridici» in corso in relazione alla prevalenza del diritto internazionale generale sulle immunità. Uno stand-by di fatto che congela le certezze di chi in Europa avrebbe forse voluto vedere il leader israeliano già con le manette ai polsi, a partire dall'Alto rappresentante Ue Borrell, per cui ottemperare al mandato d'arresto «non è qualcosa che si può scegliere»; almeno non nei 124 Paesi che riconoscono l'autorità della Cpi.
Invece anche la Francia ieri ha rispedito al mittente il messaggio del «governo» uscente dell'Ue. Ricalibrando le iniziali aperture all'arresto, il ministro degli Esteri transalpino Barrot ha spiegato che ci sono «immunità» previste dal diritto internazionale riguardo a Stati «che non fanno parte della Corte». E visto che Israele non ha ratificato lo Statuto (come neppure gli Usa) «Bibi» potrebbe essere dunque esentato dall'esecuzione del provvedimento. Parigi coopera con la Cpi, ha detto Barrot, ma «per certi leader» la decisione spetta all'autorità giudiziaria nazionale.
Giravolta d'Oltralpe, che svela l'esito del confronto al G7 Esteri: a Fiuggi, su input italiano, è emerso che una cosa è onorare il Trattato di Roma, altro è dare la stura a odiatori e toghe che mettono sullo stesso piano la leadership terrorista di Hamas con quella democraticamente eletta di Israele. Tassello non secondario nel domino mediorientale è stata però la decisione di Netanyahu di accettare una tregua con Hezbollah e il graduale ritiro dal Libano del sud. Un passaggio che ha fatto girare la ruota della politica, in attesa che quella della giustizia faccia il suo corso. Per il quotidiano Haaretz, Israele avrebbe infatti condizionato il coinvolgimento della Francia nell'accordo di cessate il fuoco nel Paese dei Cedri proprio all'annuncio pubblico di Parigi sul salvacondotto per Bibi.
Pragmatismo e realpolitik, a cui si aggrappa anche Berlino. La richiesta di manette per Netanyahu, riassume Tajani, rischia di restare solamente «un messaggio politico», perché in un momento di estrema tensione a Gaza e in Libano «occorre perseguire obiettivi realistici che favoriscano dialogo e de-escalation».
L'enigma Bibi si innesta così in un puzzle in cui ogni nazione mette in campo sfaccettature diplomatiche per non essere spettatrice; con Parigi alla disperata ricerca di centralità, in una fase che dovrebbe congelare il conflitto tra Tel Aviv e i miliziani filo-iraniani fino all'insediamento di Trump alla Casa Bianca. Per la premier Meloni, che invita a lavorare alla stabilizzazione del confine israelo-libanese, la tregua è infatti solo «un punto di partenza».
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