Uccidere la cultura è crimine di guerra

La risoluzione Onu è un segnale forte per i beni artistici. Ma serve l'aiuto di tutti i Paesi

Uccidere la cultura è crimine di guerra

L'Onu, sulla difesa del patrimonio culturale mondiale, ha spesso chiacchierato tanto, diffondendo impotenti comunicati di condanna, ogni volta che venivano distrutti o razziati in guerra siti archeologici, mausolei e musei. Irina Bokova, direttore dell'Unesco, non a caso viene sarcasticamente chiamata negli ambienti dei musei e delle case d'aste «la Signora dei comunicati stampa». Forse però la risoluzione 2347, approvata dall'Onu da poco, può segnare una svolta. In sostanza dice che distruggere il patrimonio culturale è un crimine di guerra. Chi lo distrugge, lo saccheggia e ne contrabbanda i reperti deve essere consegnato alla giustizia. Giustamente Vittorio Sgarbi è molto contento: «Chi uccide il patrimonio culturale deve essere processato e messo all'ergastolo, così come chi uccide un uomo. Già anni fa avevo invocato che venisse dichiarato colpevole di crimini contro l'umanità chi viene sorpreso a demolire o razziare siti archeologici che sono beni per l'umanità intera. Lo si deve processare così come si è fatto con Milosevic».

Il passaggio forse sostanziale della risoluzione Onu è il coinvolgimento sullo scenario mondiale del Comando dei Carabinieri per la Tutela del patrimonio culturale. Questo Comando, infatti, a differenza dell'Onu, chiacchiera poco e fa assai. Dal 1969 questi carabinieri hanno essiccato in Italia il floridissimo contrabbando di antichità che venivano quotidianamente saccheggiate, fino a pochi decenni fa, nelle necropoli etrusche del Centro Italia o nei siti archeologici pugliesi e siciliani. Grazie a ufficiali e generali come Roberto Conforti, possiamo vedere nei nostri musei opere d'arte sublimi che erano state depredate brutalmente da tombaroli e vendute da mercanti e case d'aste in Inghilterra e America (ben noti i casi di compravendita di antichità saccheggiate in Italia e comprate illecitamente dal Getty Museum di Los Angeles o dal Metropolitan Museum di New York).

La risoluzione 2347 dell'Onu potrà essere una svolta se l'Interpol, con il Comando italiano dei Carabinieri (che ha molta esperienza sul campo), metterà in crisi il gigantesco mercato nero archeologico che nasce nei Paesi in guerra o in forte turbolenza istituzionale, soprattutto Siria, Irak, Egitto e Libia. È un mercato che si condensa in Libano, a Beirut, il porto sul Mediterraneo che garantisce, con 50 agenzie di spedizione, l'invio dei reperti trafugati e nascosti nei container delle navi (circolano circa un milione di container l'anno). L'arrivo tramite navi non avviene nei nostri porti, ben sorvegliati da Polizia Postale, Ufficio Frodi e Guardia di Finanza, ma in quelli atlantici del Nord Europa, di Anversa, Amburgo e Rotterdam (dove si controlla solo il 2-3% degli arrivi). L'obiettivo sono le case d'asta, le vetrine online di antichità e alcuni musei occidentali. Il giro d'affari è stimato dall'United States International Trade Commission in 1,5 miliardi di dollari annui.

L'Onu forse ha finalmente capito che, più dei comunicati stampa, servono la polizia e un'inflessibile legislazione internazionale per reprimere il contrabbando archeologico che è il vero quotidiano crimine di guerra nei Paesi in conflitto.

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