Il rilancio di Parmacotto ha come prossimo obiettivo la quotazione in Borsa. Giovanni Zaccanti (imprenditore di Saeco, Caffitaly) che ha rilevato l'azienda emiliana nel 2018, ha affidato la partita ad Andrea Schivazappa, classe 1963, parmigiano, milanista doc, che ha subito ottenuto numeri interessanti: il fatturato 2023 ha toccato i 126 milioni dai 116 del '22 e 100 del '21. E per quest'anno l'asticella è a quota 156, con un ebitda dell'8% e una crescita dell'export del 43%. «Ma se vogliamo margini a doppia cifra, deve arrivare al 60%», dice Schivazappa in questa intervista al Giornale. Puntando tutto su brand ed estero: Parmacotto non ha allevamenti di proprietà, quello è un altro mondo. L'azienda, con sede a Parma, produce insaccati in quattro siti italiani ed esporta ovunque.
Siete già pronti per la Borsa?
«Non ancora, lo saremo tra il 2026 e il 2027. D'altra parte veniamo da un paio di anni difficili, con forti rincari per l'energia, i prodotti accessori, gli imballaggi. Abbiamo passato un biennio in cui la spinta propulsiva ha subito un rallentamento, ma siamo stati bravi a non farla arrestare. E nonostante queste difficoltà abbiamo conclusoo un aumento di capitale e nel 2023 abbiamo fatto molto bene. Per la quotazione non abbiamo una data precisa in mente. Preferiamo insistere sui nostri principi fondamentali: internazionalizzazione, un brand che deve essere mondiale, qualità e trasparenza dei prodotti».
A Parma, nella vostra sede, sventola anche la bandiera a stelle e strisce: è perché avete puntato molto sugli Usa?
«Abbiamo acquisito due società negli Stati Uniti, produciamo salumi a Boston, dove a breve partirà anche il plant per il packaging. Negli Usa vogliamo essere un player globale: è un mercato in forte crescita e che riconosce la qualità del prodotto e il pricing. E poi si possono fare partnership con i clienti, una cosa che in Italia, per esempio, ormai non è più possibile».
State andando in Giappone? Un mercato dove entrare è assai difficile.
«Saremo tra i primi a tornare in questo mercato su cui puntiamo molto. Il ministero ha fatto aprire una finestra, per i prodotti cotti, con una procedura di certificazione per cinque stabilimenti italiani, e noi siamo stati i primi a ottenerla. Sto per andare in viaggio a Tokio proprio a questo scopo».
Come azienda italiana che punta all'estero, ritenete importante e sufficiente il ruolo svolto del sistema Paese?
«Il supporto dello Stato è fondamentale perché il food italiano è strategico. L'export del cosidetto food and beverage vale 60 miliardi. A livello europeo siamo quarti dietro a Germania, Spagna, e Francia e dobbiamo crescere. Anche il ruolo di Simest (la società controllata dalla Cdp che sostiene la crescita delle aziende italiane, ndr) è importante e noi ci siamo sempre trovati molto bene con loro».
E quando invece giocate dentro alle mura di casa?
«Il mercato nazionale è più asfittico, ci sono volumi in calo. Vede, il nostro è un settore troppo legato alla grande distribuzione. E questo è un grande tema. Nel resto del mondo non è cosi, qui c'è solo quella».
Qual è il problema della Gdo?
«Sta nel brand del distributore, che è sempre favorito. Ed è un problema di mercato per noi, ma non solo: in questo modo si va a inaridire la marca e il made in Italy del food and beverage. In realtà il brand del produttore è fondamentale anche per tutta la filiera che c'è dietro».
Che risultati ottenete con i vostri brand?
«Nel nostro marchio siamo cresciuti del 18% nel giro di due anni, con 12 milioni di consumatori che lo hanno acquistato, di cui 4,8 milioni acquirenti unici. Risultati ottenuti con poca comunicazione anche perché i margini sono bassi. Per questo puntiamo tutto su qualità, innovazione e sulla sostenibilità: il nostro packaging è conferibile nella carta».
Per migliorare qualità e sostenibilità cosa prevedete di qui alla quotazione? Farete altre acquisizioni?
«Il nostro business plan non prevede ulteriori investimenti. Ma se ci saranno opportunità cercheremo di coglierle. Certo non comprerei mai un'azienda di salumi. Semmai qualcuno che mi dia una mano a internazionalizzare, o ampliare la gamma prodotti. Un'azienda del food, magari legata al nostro territorio».
E per il brand?
«Stiamo
aprendo il nostro primo concept store a Lugano, insieme con il gruppo Manor. Poi ne seguiranno altri, il secondo sarà a Milano o a Ginevra, vediamo chi apre prima. La Svizzera è un mercato dove siamo e saremo molto presenti».
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