Un problema precario

Le orribili e per certi aspetti anche criminali dichiarazioni di Francesco Caruso, deputato di Rifondazione comunista, sugli ispiratori della legge sulla flessibilità del lavoro (Tiziano Treu e il povero Marco Biagi) definiti assassini, sono l’oscena sintesi politica di una vecchia cultura ideologica e di una elezione senza preferenze. Rifondazione ha preso le distanze dal suo deputato, ma non basta. C’è bisogno di riprendere il filo di una discussione sul tema del lavoro precario nella quale ognuno dice un pezzo di verità, ma ne tace un altro. Non c’è dubbio, ad esempio, che dopo la legge Biagi il numero dei lavoratori precari sia aumentato, così come l’instabilità sociale delle giovani generazioni. Non c’è dubbio, però, che senza quella legge moltissimi di quei giovani che giustamente paventano la sempiterna precarietà sarebbero rimasti senza lavoro e senza alcun reddito. Due verità parziali, dunque, che insieme, però, non fanno la verità. La flessibilità del lavoro è uno degli elementi necessari perché le aziende possano continuare a competere sui mercati internazionali e nello stesso mercato domestico. Alla stessa maniera contratti a tempo determinato o part time possono intercettare alcune esigenze di lavoro giovanile o femminile (in particolare il part time) che non potrebbero essere soddisfatte altrimenti.
Se tutto ciò è vero, allora il nodo irrisolto della diffusione e della perpetuazione della precarietà del lavoro è tutto un altro. La flessibilità è nata, infatti, per dare un di più di occupazione in una economia che cresce. Se, invece, il tasso di crescita è basso o addirittura nullo l’effetto della flessibilità del lavoro è la destrutturazione dell’occupazione stabile, quella cioè a tempo indeterminato. Non a caso il tasso di occupazione oggi in Italia è al 58 per cento ed è cresciuto rispetto al ’95 dopo la terribile crisi recessiva, ma è ancora inferiore a quello del 1991, oltre ad essere tra i più bassi d’Europa. Se a tutto ciò si aggiunge, poi, il modestissimo tasso di incremento annuale della produttività del lavoro, sui precari si scarica anche l’esigenza delle aziende di tenere bassi i salari d’ingresso per recuperare competitività.
Insomma precariato e bassi salari sono ad un tempo causa ed effetto di un’economia che cresce poco e che dal ’95 è agli ultimi posti per tasso di produttività. Si comprenderà allora perché azzuffarsi sulla tollerabilità sociale del lavoro precario significa aggirare i veri problemi ingaggiando una guerra di principi che poco o nulla hanno a che fare con le speranze e i bisogni delle nuove generazioni. Crescita e produttività, dunque, sono il vero terreno su cui confrontarsi. Purtroppo i segnali che arrivano su questo fronte negli ultimi tempi non sono confortanti. Il calo della produzione industriale nel mese di giugno (-0,5%) e la caduta del clima di fiducia di famiglie e di imprese nel mese di luglio la dicono lunga sull’affanno della nostra economia. Se il tasso di crescita dovesse restare inchiodato al di sotto del 2 per cento come dicono gli ultimi dati, non avremmo né il risanamento dei conti pubblici e meno che meno la lotta al precariato.
La sinistra ancora una volta rincorre le utopie immaginando di contrastare la forza del mercato opponendosi trinariciutamente ad essa piuttosto che governare i processi economici affrontando quei nodi, come la produttività e la crescita, la cui risoluzione diffonderebbe quote ulteriori di benessere, maggiore stabilità nel lavoro e più forte coesione sociale. Alla stessa maniera sarebbe un errore uguale e contrario affidarsi fideisticamente a un liberismo selvaggio.

Il Paese rischia di accartocciarsi su se stesso se non affronta con spirito nuovo le questioni di fondo della nostra economia mettendo da parte, tutti insieme, residuati ideologici, insulti e subalternità culturali e acritiche ai santuari accademici di questa o di quella parte. La politica è sintesi alta e la sua azione non può immiserirsi nelle contingenze del quotidiano con tutto il suo corredo di polemiche spicciole.
Geronimo

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