Dunque, è scoppiata la prevedibile polemica sul razzismo degli italiani ed ha investito anche il terreno linguistico con il rimprovero mosso da Pierluigi Battista a Vittorio Feltri di aver usato la parola «negro». Feltri ha prodotto diversi esempi per provare l'innocenza del ricorso a questa parola. Ad essi può essere aggiunto il più importante di tutti: l'introduzione del termine «negritudine» (dal francese «négritude») da parte del presidente e poeta senegalese Léopold Sédar Senghor che, assieme a Aimé Césaire e altri, lo intese come simbolo e rivendicazione orgogliosa dei valori culturali dell'Africa nera. Un intellettuale certamente non reazionario come Sartre si schierò con il movimento della «negritudine» sostenendo che esso esprimeva la ricerca delle radici di una civiltà oppressa dal colonialismo. Certo, il concetto e il movimento della «negritudine» fu poi criticato e avversato da molti africani come espressione di una persistente subordinazione culturale e di un razzismo alla rovescia. Il che significa soltanto che tutto ciò è materia di una discussione che non può che essere pacifica, ragionata e aliena dalle condanne perentorie tipiche del politicamente corretto.
Chi scrive detesta il politicamente corretto e le sue follie fondamentaliste. Ne ho visto un simbolo all'aeroporto di Francoforte, in cui sono stati allestiti piccoli cubi di vetro per fumatori, dove il malcapitato può sfogare il proprio vizio soltanto se lo espone in vetrina al pubblico ludibrio. Tuttavia, anche nelle cose peggiori può esserci qualcosa di buono e una certa prudenza nell'uso delle parole è giusta. Ritengo che il criterio discriminante sia quello del contesto oltre che, ovviamente, dell'intenzione. Ad esempio, anni fa un noto uomo politico - evitiamo il nome e le polemiche connesse - si riferì in televisione ad alcuni suoi amici che considerava dei primitivi sul piano della cultura alimentare come a dei «zulù» (con l'accento sulla «u»). In questo caso non bisogna essere antropologi per sapere che zulu designa una lingua e una cultura e per trovare orripilante l'uso di questo termine come sinonimo di primitivo, rozzo e selvaggio. Lo stesso politico, facendo ricorso all'espressione «non ho l'anello al naso», dava ragione al politicamente corretto, perché è inaccettabile identificare questa usanza - cui ricorrevano popolazioni di elevate capacità organizzative e guerriere - come un simbolo di dabbenaggine idiota.
Conta il contesto e l'intenzione, e se il politicamente corretto insegna qualcosa è a non comportarci più come quei bianchi che, con mentalità provinciale, reagivano alla presenza di una persona di colore con la stessa ilare curiosità con cui si osserva un babbuino. In fondo, il termine «negro» si pone sullo stesso piano del termine «giudeo», su cui pesa un ripetuto uso dispregiativo. Malgrado questo uso si continua a parlare di pensiero «giudaico» o di «radici giudaico-cristiane» senza alcuna connotazione negativa, al contrario. Conta l'intenzione e il contesto. Perché, se si parla dei «giudei» per auspicare la loro morte come una liberazione per l'umanità (alla maniera di Agostino Gemelli), è un'altra faccenda, alquanto sporca. Come lo è l'uso della parola «giudeo» (ma anche «ebreo») quando non c'entra nulla: per esempio parlando di consigliere ebreo del ministro dell'Istruzione. E come lo sarebbe parlare della riforma sanitaria non del presidente Obama, ma del «nero» Obama.
Potremmo continuare con le disquisizioni, ma viene spontanea una domanda: non ci stiamo impelagando in discussioni non prive di valore ma che finiscono con l'occultare i problemi più gravi? Le parole possono essere pietre, ma i comportamenti di fatto possono essere proiettili, anzi obici. Leggiamo sulla stampa che il parroco di Rosarno ha dichiarato: «Li avete cacciati. Oggi siamo più poveri. Bisogna aiutare i fratelli che sbagliano», invitando i «farisei» a non entrare in chiesa. Ci si stracciano le vesti dicendo che il bubbone è cresciuto malgrado gli sforzi della Caritas, dei sindacati e le teglie di maccheroni confezionate da una signora caritatevole. In verità - lo dico senza reticenze - ho sempre nutrito la massima repulsione morale per la pratica della carità. Detesto quelle persone benvestite che calano la monetina e se ne vanno contente e appagate senza chiedersi se in tal modo non hanno perpetuato la schiavitù del bambino che l'ha raccolta e, in generale, la condizione miserabile dell'elemosinante. Sono convinte di aver fatto un passo verso il paradiso e ne hanno fatto uno verso l'inferno. Propinare un piatto di minestra e fornire cartoni nuovi che perpetuano il dormitorio per strada, invece di pretendere condizioni umane degne di questo nome, questo sì che è un comportamento indecente.
C'è qualcosa di profondamente sbagliato e fuorviante in certe polemiche attorno al razzismo connaturato negli italiani, che avrebbe le sue radici nel periodo iniziale dello stato unitario. Ormai è diventata una moda intollerabile e autodistruttiva imputare ogni male di questo paese all'unità. Basta guardarsi attorno e guardare alla storia degli altri principali paesi europei per rendersi conto di quanto la verità sia all'opposto: l'Italia è il paese che ha le più deboli tradizioni razziste in Europa. A Rosarno sono emersi i tentacoli della criminalità organizzata, che rappresenta la forma contemporanea dei mercanti di schiavi, e il terreno che ne alimenta la sopravvivenza, ovvero una cultura diffusa dell'illegalità. È emersa la complicità, quanto meno il volgere lo sguardo dall'altra parte di istituzioni, organizzazioni e molti cittadini che hanno preferito lavarsi (o, per meglio dire, sporcarsi) la coscienza con l'elemosina anziché prendere di petto il problema di opporsi con tutte le forze alla malavita organizzata e al moderno schiavismo. Questi sono i veri problemi, di questi bisogna parlare, su questi bisogna agire.
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