Il programma di Monsieur De La Palisse

Confessiamo la nostra difficoltà ad accodarci a quanti sparano a palle incatenate contro il Documento di programmazione finanziaria (Dpef) approvato l’altro giorno dal governo. E la ragione è molto semplice. Quel documento è il trionfo di Monsieur De La Palisse, la celebrazione delle ovvietà e delle buone intenzioni universalmente condivise, insomma la riconferma di ciò che tutti vogliamo da sempre. Il ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa, tecnico di grande valore, quando ha voluto definire il profilo politico del voluminoso Documento di programmazione finanziaria (150 pagine che si aggiungono alle 280 del programma universale dell’Unione) ha detto con orgoglio e sicurezza che esso si basa su tre concetti: sviluppo, equilibrio ed equità. Ebbene, sfidiamo chiunque a trovare in Italia e nel mondo qualcuno che voglia, al contrario, la recessione, lo squilibrio e l’ingiustizia.
In politica la differenza non la fanno gli obiettivi, ma gli strumenti per raggiungere gli obiettivi che, per loro natura, sono quasi sempre condivisi in un Paese democratico. E invece sugli strumenti c’è, nel documento, un assordante silenzio, tanto che negli editoriali di molti organi d’informazione viene auspicata l’eliminazione del Documento di programmazione finanziaria ridotto, ormai, a una querula liturgia che, per l’appunto, sfocia quasi sempre nella banalità più disarmante. Quando si dice che la correzione dei conti pubblici dovrà essere di 20 miliardi di euro, essa è la risultante «matematica» per passare da un rapporto deficit-Pil che il governo, sbagliando, ritiene oggi del 4,5-4,6 per cento, al 2,8 per cento programmatico.
Non vogliamo assolutamente far polemica sulla credibilità di una maggioranza che nel 2001, con gli stessi partiti e con gli stessi uomini, spiegò che il deficit era dell’1,8 per cento, mentre fu del 3,2 per cento, come documentò dodici mesi dopo la Commissione europea. Non vogliamo farlo, perché è giusto dare al governo, a qualunque governo, una iniziale fiducia. Quando, però, nel documento si afferma che per correggere i conti pubblici bisognerà incidere nei grandi comparti della sanità, della previdenza, degli enti locali e del pubblico impiego, si dice una cosa drammaticamente ovvia, per il semplice fatto che non c’è nel bilancio pubblico un altro comparto della spesa corrente, se si eccettua la spesa per interessi che, come è noto, viene decisa dal mercato e dall’andamento dei tassi internazionali di interesse.
Ecco perché non si può disapprovare questo documento, che fa analisi economiche giuste e fin troppo note, ma che nulla dice e niente sceglie sul terreno degli strumenti necessari per risanare la finanza pubblica e rafforzare la ripresa economica. Contro il nulla, dunque, è difficile combattere, e lo diciamo senza polemica, ben sapendo che le scelte vere dovranno venire con la prossima Finanziaria, in vista della quale il lavoro di composizione degli interessi politici e sindacali è ancora tutta in alto mare.
Qualcosa in più, però, va detto sul terreno dello sviluppo economico. Abbiamo, infatti, la sensazione che ancora una volta si pensi di risanare i conti pubblici senza metter mano alla ripresa economica. Una sensazione sgradevole alimentata, peraltro, dagli obiettivi programmatici che lo stesso governo si dà per i prossimi anni sul terreno della crescita del Prodotto interno lordo e su quello dell’occupazione. L’anno prossimo, infatti, il governo «spera» di far crescere l’economia italiana dell’1,2 per cento, nel 2008 dell’1,5 per cento e nel 2011 dell’1,7 per cento. Insomma, oltre mezzo punto in meno delle previsioni di crescita della media dei Paesi della zona euro. Per quanto riguarda il tasso di disoccupazione, il governo spera di ridurlo alla fine di questa legislatura, di appena lo 0,9 per cento, attestandosi sul 6,7 per cento nel 2011. Ebbene, è difficile non capire da questi numeri quello che il documento non dice, e cioè che ancora una volta si pensa di sacrificare lo sviluppo al risanamento dei conti pubblici, sbagliando clamorosamente.
Un Paese con un debito pubblico importante come il nostro, se non cresce ad un tasso almeno del 2,5 per cento annuo, non potrà risanare un bel niente, se non a condizione di quella che viene definita in gergo sindacale una macelleria sociale. E gli ultimi dieci anni sono lì a dimostrarlo. Senza sviluppo, il deficit e il debito sono aumentati rispetto al 1991, nonostante la riduzione della spesa per interessi conseguente al calo internazionale dei tassi. La nostra, ripetiamo, è solo una sensazione, anche se la tabella programmatica che il governo propone nel suo Dpef è un fatto incontrovertibile.

E come siamo stati nel vero sulla questione dei tassisti e sulla intollerabile retroattività della nuova imposizione fiscale sulle società immobiliari (il governo si è già dichiarato pronto a modificare entrambe quelle norme) anche questa volta rischiamo di avere ragione. E, purtroppo, non sarà una buona cosa per il Paese.

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