Per darsi coraggio, Romano Prodi scimmiotta il duce. Dice che questo è il tempo del bastone e della carota. Promette la carota ai ministri che rigano dritto e minaccia il bastone a quei colleghi che procedono in ordine sparso come unallegra compagnia di ubriachi. Sembra intenzionato ad avvalersi dellarticolo 95 della Costituzione, che conferisce allinquilino di Palazzo Chigi il potere di dirigere la politica generale del governo. Comè noto, molti suoi predecessori si sono aggrappati come naufraghi a questa disposizione. E hanno fatto cilecca. Indossati i panni del castigamatti, che gli sciacquano addosso, il Professore non si ferma a metà strada. E strapazza anche i sottosegretari eletti in Parlamento, che se non opteranno per luna o laltra carica si vedranno sottrarre le deleghe.
Prodi non è da meno con lopposizione. Offre la carota di regole condivise, ma tiene in pugno un nodoso bastone. Sa di aver ottenuto la fiducia al Senato solo grazie al voto determinante dei senatori a vita. Come ha sottolineato un insospettabile Leopoldo Elia. Altro che autosufficienza della maggioranza politica! E in preda allo sconforto, il presidente del Consiglio non trova di meglio che fare proposte indecenti. Giudica insensata la circostanza che in Italia i presidenti delle Camere non votino. Considera «saggissima» la bella pensata di Cossiga di modificare il regolamento di Palazzo Madama in guisa tale che gli astenuti, in barba alla Costituzione, non siano più computati tra i presenti. Dulcis in fundo, chiede il rinvio del referendum elettorale alle calende greche in modo di tessere in Parlamento la tela di Penelope e rimanere indisturbato a Palazzo Chigi quanto più tempo possibile.
Se Prodi fa la faccia feroce e ostenta il bastone, il ministro Vannino Chiti si traveste da Walter Veltroni e indulge al (falso) buonismo. Dopo aver pestato acqua nel mortaio, si sente inutile. E prospetta, pensate un po, lopportunità di uno speciale comitato parlamentare con il compito di elaborare con tutta calma quella proposta di riforma elettorale che lui non è riuscito a inventarsi. Un comitato magari presieduto da un esponente dellopposizione. In omaggio al principio del divide et impera, Chiti pensava a Fini. Che però ha avuto il merito di non abboccare allamo e di tirarsi fuori. Fatto sta che il ministro diessino non demorde. Sa bene che il Tatarellum, ossia la legge elettorale regionale sulla quale potrebbe prospettarsi unintesa, ha dato buoni frutti solo dopo la modifica costituzionale che ha previsto lelezione popolare diretta del presidente della Regione e la norma antiribaltone. Grazie alla quale se il consiglio sfiducia il presidente, tutti a casa. Adesso addirittura inverte la consecutio temporum. Difatti Chiti avverte che si deve cominciare con alcune mirate riforme costituzionali per poi mettere mano alla riforma elettorale. Campa cavallo.
A sua volta DAlema indulge al pragmatismo. Esperto comè di ribaltoni a proprio vantaggio, non esclude la proporzionale personalizzata di stampo tedesco allo scopo di legare Casini al carro del centrosinistra. Ma al tempo stesso non ripudia il suo antico amore per il doppio turno alla francese. Astuto comè, ma le vecchie volpi prima o poi finiscono in pellicceria, si ripromette di prendere due piccioni con una fava. Condannare in permanenza il centrodestra allopposizione perché molti suoi elettori al secondo turno disertano le urne. Ed emarginare la sinistra radicale in quanto il doppio turno penalizza le estreme.
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