Ci mancava solo il «people mover», la navetta monorotaia che correndo a tre metri da terra collegherà il parcheggione del Tronchetto a Piazzale Roma. Per non parlare della Sublagunare, metropolitana subacquea che in pochi minuti dovrebbe portare altre migliaia di persone dall’aeroporto di Tessera al centro storico. Ovunque ti cada l’occhio c’è un nuovo albergo sul Canal Grande e un bed & breakfast in ogni calle, non sempre al completo perché i polli da spennare hanno mangiato la foglia: dormono in qualche pensione belsoggiorno a una o tre stelle, arrivano alla mattina con il pranzo al sacco, fanno il loro raid e a sera se ne vanno belli e contenti senza aver speso un euro. E infatti vanno a gonfie vele al di là del Ponte della Libertà gli alberghi low cost ricavati da vecchi edifici ristrutturati. Ce n’è uno, coloratissimo, a dieci metri dal Petrolchimico. Ti affacci alla finestra e provi l’ebbrezza di star dentro l’impianto che produce cloruro di vinile. Sta di fatto che il rapporto veneziani-turisti è di 1 a 10 e che se capiti in mezzo a un gregge sbarcato da una gigantesca nave crociera e finito in qualche imbuto del labirinto veneziano sei fregato, per uscirne dovresti andartene a nuoto.
Non a caso torna a far capolino l’idea del «numero chiuso», che piace molto ai veneziani e pochissimo a Cacciari il quale la giudica irrealizzabile e antidemocratica. Ma andiamo con ordine.
Venezia è al collasso, travolta da un flusso quotidiano e inarrestabile di turisti. Un fiume di gente che arriva da ogni parte del mondo, spesso sollecitata da spot delle agenzie di viaggio di questo tenore; «Venice is sinking, it’s your last chance» (Venezia sta affondando, è la tua ultima occasione). Dall’Est arrivano orde di russi, rOmeni e bulgari cui i tour operator offrono vacanze settimanali a prezzi stracciati. E poi c’è un aumento esponenziale di zingari e di vu’ cumprà, che forse solo i Lagunari riusciranno ad arginare. Una vera e propria invasione delle cavallette che contribuisce a far emigrare in terraferma i pochi veneziani sopravvissuti all’assedio. Nel 2008 altri 1.500 residenti hanno lasciato la Serenissima traslocando a Mestre, Marghera, Mirano, Spinea, e siamo ormai quasi sotto la soglia dei 60mila. Eppure nessuno si sogna di cercare di invertire la tendenza. Anzi, sembra che si faccia di tutto perché la città sia sempre più in balìa dei «foresti». In fondo la strategia delle giunte di centrosinistra è sempre stata questa: svuotare la città dei suoi abitanti, completarne la trasformazione in una specie di Gardaland, magari sistemando nelle nicchie delle porte d’acqua manichini semoventi dei Dogi, di Casanova e delle sue amanti, o simulando in bacino San Marco la battaglia navale di Lepanto come facevano i romani con le naumachie al Colosseo ai tempi di panem et circenses, e il gioco è fatto. La «gallina dalle uova d’oro» al servizio di Mestre, ormai una metropoli dove stanno per sorgere tre maxi torri nella zona del vecchio ospedale e dove finiscono buona parte dei soldi ciucciati in laguna grazie al turismo, al Casinò che macina milioni e alle leggi speciali per Venezia, le quali, checché se ne dica, hanno portato molti schei, mica noccioline. Un bacino elettorale caro alla sinistra quello delle popolari Mestre e Marghera, contrariamente a quello veneziano dove ormai resistono solo poche famiglie benestanti di nobile casato, diplomatici e professionisti. Se il piano è questo, ovvio che i residenti siano d’impiccio. Ai gondolieri, ai motoscafisti, agli albergatori, agli affittacamere, ai ristoratori, ai baristi, agli ambulanti regolari e abusivi e ai negozianti di maschere e vetri importati dalla Cina, non servono i veneziani ma gli stranieri del turismo «mordi e fuggi». Ai quali grazie a un impressionante turnover di massa puoi anche vendere una mela a 4 euro perché una volta passati di lì provenienti da Anchorage, da Tokyo o da Berlino, difficilmente torneranno. Pagano 6 euro per salire sul vaporetto e il mistero è perché l’azienda dei trasporti, con le montagne di euro che incassa, pianga sempre miseria. E se poi capitano nel ristorante sbagliato sono dolori. Ergo, per non farsi buggerare, preferiscono vagare per Venezia con zainetti pieni di bibite e panini disertando i musei, Palazzo Grassi o la splendida Punta della Dogana destinata all’arte contemporanea e appena restaurata dall’architetto giapponese Tadao Ando. Quasi tutti, si badi bene, concentrati in zona San Marco, tra Rialto e Palazzo Ducale, in uno spazio non molto più ampio di quello compreso tra piazza San Babila e il Duomo a Milano. Un autentico formicaio con punte che raggiungono in primavera, estate e a Carnevale 150-200mila presenze. Tutte concentrate lì, per assecondare le esigenze di quanti lucrano sul turismo, senza percorsi alternativi dirotti i turisti altrove, nei sestieri della «vera» Venezia come Cannaregio, Dorsoduro, Castello, Giudecca. E con una situazione che diventa esplosiva se i marinai dell’Actv scioperano durante la Festa del Redentore o i vigili urbani nel giorno della Regata storica. Giustamente l’assessore al decoro Augusto Salvadori sferra i suoi attacchi contro i barbari e gli incivili che girano a torso nudo, fanno il pediluvio nei rii o mangiano tranci di pizza seduti per terra. Ma dove dovrebbero sedersi se le panchine sono pochissime e non c’è traccia di verde pubblico? È così difficile piantare qualche albero nei grandi campi veneziani dove gli anziani con questo caldo rischiano un’insolazione?
Per i pochi veneziani rimasti Venezia è diventata invivibile. Gli affitti sono proibitivi per una giovane coppia che voglia stabilirsi qui e per comprare un bilocale a piano terra «esente acqua alta» toccherebbe sborsare 400mila euro, figuriamoci un appartamento al secondo piano. Sui vaporetti si sta come sardine, calli e campielli sono sempre ingorgati e servirebbe un Passante, trovare una drogheria in centro è come cercare un ago nel pagliaio. Lo stesso valga per ferramenta, mercerie, barbieri e quant’altro perché le botteghe sono scomparse. A meno che non si faccia parte del giro delle clientele politico burocratiche veneziane lavoro non ce n’è. Le magliette con la scritta «Venice by night» sovrastata da una pantegana descrivono cos’è Venezia di notte, un via vai di topi e topastri che pare di stare a Broadway. I soliti luoghi comuni, risponde il Sindaco, i soliti attacchi demagogici. Può darsi. Ma cos’altro resta da fare a giovani e anziani se non togliere il disturbo?
Abituata ai lunghi dibattiti, basti per tutti quello sul Mose sì Mose no durato quarant’anni, Venezia ora parla di ripopolare la città e di un «numero chiuso» per non farla soffocare. In fondo questo è un museo a cielo aperto, una città delicatissima che richiede cure continue. Per quale ragione, si chiedono tanti veneziani, non far pagare un biglietto? Cacciari non sarebbe costretto a piazzare distributori della Coca-Cola alle fermate dei vaporetti per rimpinguare le casse comunali e un turismo più «selettivo» tutelerebbe gli interessi dei commercianti e migliorerebbe la qualità della vita dei residenti. Per salvare Venezia serve una «rivoluzione» e cresce il fronte che vorrebbe vedere a Cà Farsetti, nei panni di primo cittadino, il ministro Renato Brunetta. Cacciari sta lasciando il suo appartamento di San Tomà per traslocare a Mestre («E come faccio con tutte le spese che ho?», mi ha detto di recente) e si dice che alla sua poltrona aspiri il rossoverde Gianfranco Bettin.
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