Pugni, successo e fama: è la rivincita dei dilettanti

Morale della favola? La boxe ha ritrovato il filone della sua passione. Oggi tutti sanno chi siano Cammarelle, Russo e Valentino, e magari Picardi. Qualcuno riesce perfino a farsi riconoscere. Non a Marcianise o Cinisello Balsamo dove sta la culla delle loro storie. Ma in giro per l’Italia: magari al bar o al cinema, al ristorante o in aeroporto, a Roma o a Torino. Qualcuno si è perfino infilato nel giro televisivo. Inutile girarci intorno: il gladiatore è sempre piaciuto.
C’è stata un’Italia che impazziva per la miss Italia sposata da Tiberio Mitri, quando il campione contava più della miss. E quell’Italia che sbavava dietro a Frattini, Jacovacci e Bosisio, Locatelli e Proietti, Benvenuti e Loi, Mazzinghi, Mattioli e i grandi guerrieri del ring. Ma quella era la boxe dei professionisti, sangue e arena, lotta per la sopravvivenza e una buona borsa, campioni al di là di ogni orizzonte. Questa è la boxe dei giorni nostri, ragazzi in caschetto, costretti a tirar colpi come fossero al luna park con i fucili ad aria compressa. Punta e miri: solo la faccia, perchè il resto era boxe, oggi è perdita di tempo e di punti. Anni fa, la boxe dei dilettanti contemplava il meglio dell’arte pugilistica, tutto quanto fosse scherma senza preoccuparsi del ko, ovvero del colpire forte e preciso, c’erano artisti del tocca e fuggi (Oliva tanto per capirci, ma pure un grande slavo come Mate Parlov), bastava colpire bene e preciso che è un’altro modo di fare pugilato. Quello dei gentleman da libro della storia.
Ed oggi, scartato il sottile distinguo che aveva fatto, della boxe dei dilettanti, la compagnia di serie B della boxe del business, siamo ad elencare nomi e imprese e, a malapena, ricordiamo qualche nostro professionista. Qualcuno dirà Vidoz, soprattutto perchè è un simpaticone, un gigante che ha buttato chances e carriera inchinandosi alle sue sregolatezze. Ci resta Fragomeni che, a 40 anni e una vita d’inferno alle spalle, interpreta tutto quello che vedi nei film tradotto in realtà. Ma poi chi si ricorda di chi? Giovanni Parisi è stato l’ultima medaglia d’oro olimpica prima di Cammarelle e l’ultimo interprete di una boxe professionistica da quartieri alti del business e della nobiltà. Benvenuti e un altro bel gruppo (Bossi, Lopopolo, De Piccoli, Saraudi) sono sbocciati dai giochi di Roma 1960, nel tempo altri grandi dilettanti sono diventati campioni del professionismo (Rinaldi, Atzori, Arcari, Udella, Damiani, Stecca, Cotena, Minchillo, Piccirillo). E prima di loro campioni lontani: da Carletto Orlandi ad Aureliano Bolognesi. Ma allora il dilettantismo era una tappa di passaggio, il professionismo un mondo per vivere e viverci. Oggi, invece, il professionismo italiano rischia di portare alla fame. Il dilettantismo è un buon investimento sul futuro. Aureliano Bolognesi, nel 1952, vinse l’oro alle Olimpiadi di Helsinki fra i pesi leggeri, la stessa categoria di Valentino. Incassò un premio di 70mila lire, una buona cifra pur in tempi difficili. E senza aver altri privilegi. I nostri ori di Pechino hanno incassato 140mila euro(circa 280 milioni di lire), a cui vanno aggiunti premi a incontro, lo stipendio del gruppo sportivo (per la gran parte dei pugili è la polizia), le diarie giornaliere. Rimanere dilettante è un affare. Ai mondiali di Milano, i premi per l’oro toccavano i 50 mila euro. Cammarelle è riuscito a farselo raddoppiare scommettendo sul successo: pagatemi solo se vinco l’oro, ma pagatemi doppio. Ha giocato in casa, in tutti i sensi.
Ormai il dilettantismo si è preso una incredibile rivincita sul professionismo. Per esempio, Letizia Moratti, il sindaco di Milano, ha chiesto a Cammarelle, a lui come uomo-immagine, di partecipare al progetto di una palestra per recuperare giovani con problemi di adattamento sociale. I nostri praticanti sono proprio un pugno e niente più: 9.500. Gli appassionati sono contati in circa tre milioni. Le palestre cominciano ad affollarsi, l’11 per cento sono donne che spesso vedono nel punching ball la faccia dei mariti o degli amanti. E dicono essere una bella soddisfazione! Sabato pomeriggio il Forum, solita cattedrale nel deserto (non ci arriva nemmeno la metropolitana), ha radunato circa 8.000 persone, molto meno nei giorni precedenti. Ma non c’è riunione di professionisti che sia arrivata a tanto negli ultimi dieci anni a Milano. Quest’inverno il Palalido si è riempito almeno un paio di volte in occasione dei dual match azzurri. La boxe è ancora nel cuore e nel gusto della gente. Attira tutti: dagli anziani alle donne. Francesco Damiani ha promesso che gli azzurri si ripresenteranno al Palalido per altre due-tre riunioni. «Abbiamo scoperto il nostro pubblico, è stato un successo, vale riprovarci».
Cammarelle fra un paio di mesi annuncerà il futuro: «Ma non mi sento un professionista, mi piace questo mondo, mi piace la boxe dei gentleman. Tra i prof c’è gente che si picchia come fosse per strada. Non mi vanno gli spettacoli solo per il business, senza più una logica sportiva. Certo, se poi qualcuno mi fa un’offerta impareggiabile... posso provarci». Domenico Valentino insegue l’oro olimpico. «Potrei cambiare idea solo in caso di buona offerta». Chiaro il discorso? Essere dilettante garantisce uno stipendio che può fare a pugni con le offerte dei prof.

Clemente Russo è andato perfino negli Stati Uniti da Don King: ma annusata l’aria e capito il tipo, se n’è tornato volentieri a casa. Anche Duilio Loi rinunciò ad una carriera americana: in Italia riempiva gli stadi e le sue tasche. Qui basta riempire le tasche. E il professionismo va ko.

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