Quando per le feste si regalavano i «dinâ da nuxe», i denari della noce

Tra le usanze natalizie genovesi, ormai quasi dimenticata nella sua antica denominazione, vi è quella del «dinâ da nuxe», letteralmente il denaro della noce: per Natale si era, e si è, soliti dare la mancia al postino, al garzone del negoziante, oppure è lo stesso negoziante a fare un piccolo omaggio ai suoi più affezionati clienti. Un piccolo gesto di riconoscenza verso chi lavora per noi, o verso chi dimostra particolare attenzione verso la propria attività. In climi come quello attuale, a dire il vero, si rischia di far passare questi semplici gesti di amicizia e di simpatia, in forme di corruzione o di degrado morale quali non sono. Tuttavia anche in passato questa usanza creò problemi alle istituzioni che si sentirono in dovere di proibirle.
Narrava infatti Aidano Schmucker che in un certo periodo della Repubblica Genovese fu proibito a «bargelli e cavalieri» di accettare regali «né quelli che si chiamano denari da noce et simili mangerie». Addirittura, a chi avesse trasgredito accettando doni e regali erano assicurati tre anni di galera, senza discutere. Ma nonostante le minacce l'uso persisteva. Agli uscieri del Comune, o meglio a coloro che portavano le notificazioni del Comune o del Tribunale che erano chiamati nella lingua genovese «traggette», il regalo natalizio consisteva in un paio di calze nuove. D'altra parte lo storico Paolo Giardelli ricorda anche che nel 1444, il Banco di San Giorgio nel definire quale doveva essere l'Ufficio del tesoriere, vietava agli incaricati di ricevere qualunque genere di emolumento o di mancia dai privati, fatto salve «il danaro da noce a Natale».
Ma perché «dinâ da nuxe»? È sempre Schmucker che ce lo spiega raccontando che già in epoca medievale vi era l'abitudine di regalare in occasione del Natale una grande quantità di noci, antico simbolo di fecondità e di abbondanza. Il dinâ invece, il denaro, era la dodicesima parte del soldo ma in questo caso ha ovviamente il senso lato di moneta. Più verosimilmente però l'espressione starebbe a significare una regalia natalizia in denaro che veniva fatta per comprare le noci, tradizionale frutto che non manca mai sulla mensa di Natale. A proposito dei dinae, invece, val la pena ricordare l'antico detto «I dinae son riöndi e s'arrigôan» per significare che i soldi purtroppo vanno via presto.


Un poeta genovese, per altro poco conosciuto, Giambattista Rapallo detto Baciccia vissuto nella seconda metà dell'Ottocento, ricordava l'usanza del «dinâ da nuxe» in un suo sonetto natalizio nel quale rivolgendosi al Bambin chiedeva quale «dinâ da nuxe» una grazia: «e a noi che v'imploremmo in zenoggion, faene sta grassia, pe' dinâ da nuxe».

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