Quando i "ricchi" combattono contro l’opinione pubblica

L’opinione pubblica è una brutta bestia. «È pubblica l’opinione della maggioranza - ha scritto Lawrence Lowell - accettata da una minoranza che ha libertà di esprimere il suo dissenso, ma che sente d’altra parte l’obbligo morale e politico di sottostare alla decisione dei più». L’opinione pubblica rappresenta un concetto dunque molto scivoloso. Non dovrebbe essere quello strumento concettuale attraverso il quale «lo Stato sacrifica senza pietà le minoranze dissenzienti» ci ricorda un liberale come Bruno Leoni. L’opinione pubblica oggi ha un bersaglio ancora non perfettamente messo a fuoco, ma presto definito: il ricco. L’Economist, il giornale dei «ricchi», vi ha dedicato uno speciale rapporto intitolato «I ricchi sotto attacco». Prendendo saggiamente le parti dei «poveri» ha però avuto modo di ricordare come i primi abbiano perso, cause crolli di Borsa, un terzo del proprio patrimonio pari alla favolosa cifra di 10mila miliardi di dollari, poco meno del Pil italiano. BanKitalia ha pubblicato un corposo studio coordinato da Fabio Panetta e Paolo Agelini in cui si ricorda: «il crescente consenso attorno all’idea che i compensi nel settore finanziario siano diventati eccessivi». Lo studio mette in evidenza come bonus eccessivi e gratifiche abbiano negli anni favorito frodi e acuito gli effetti della crisi.
Nel frattempo l’opinione, presunta pubblica, si fa giustizia da sé: sequestra, intimida, distrugge. La minoranza è quella dorata. È quello 0,1% dei ricchi americani che da solo si porta a casa un reddito 77 volte superiore a quello del 90% della popolazione a stelle strisce. È quella cerchia ristretta, ristrettissima, di manager, amministratori che continuano a elargirsi stipendi da favola e che una volta licenziati non hanno pudore nel portarsi a casa liquidazioni da urlo. Per l’opinione pubblica questa minoranza è indifendibile essenzialmente per due motivi: ha creato la crisi finanziaria ed economica che stiamo vivendo e per di più con la sua opulenza insulta la difficoltà dei tanti. Ma questa minoranza sente «l’obbligo morale e politico di sottostare alla decisione dei più»? Partecipa al processo di ricostruzione dell’economia su basi diverse rispetto a quelle che hanno portato alla crisi? E ancora, è forse lecito pensare che sia necessario condividere con gli attori della crisi le ragioni della ricostruzione?
Insomma una piccola minoranza dorata ha fornito degli strumenti formidabili alla ricostruzione di una massificante opinione pubblica internazionale. Siamo rapidamente passati dalla globalizzazione degli scambi e della finanza, a quella dei preconcetti. Né serve oggi il vecchio strumento intellettuale: i ricchi hanno meritato grazie ai propri talenti la ricchezza, le generose retribuzioni sono necessarie a costituire un sistema di incentivi che facciano emergere solo i migliori. Con una crisi diffusa, il nostro strumento intellettuale diventa un vecchio attrezzo senza scopo.
Ecco perché oggi la minoranza ha «l’obbligo morale e politico di sottostare alla decisione dei più». Non già per riconoscere effettivamente il proprio errore, che può anche non esserci individualmente stato. Ma per rivendicare al contrario la bontà di un modello. Per assumersi il peso di una responsabilità che comunque nel passato ha rappresentato un onore.

La bonanza di quindici anni di sostanziale crescita finanziaria ha riguardato un settore molto preciso, che si è ben vista dal sottrarsi dal beneficio collettivo. Sotto il favoloso ombrello del merito si sono accomodati in tanti. Gli stessi che oggi debbono assumersi la responsabilità degli errori commessi.
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