Quando la Lega voleva il presidenzialismo

RomaIn fondo nel Carroccio è sempre stato così: Lega di lotta e di governo, un po’ Pontida e un po’ Palazzo Chigi, un po’ urla e un po’ pacate discussioni nell’infinito tira e molla di clamorosi strappi e repentine ricucite. Pure il presidenzialismo, seppur con il chiodo fisso del federalismo, è entrato e uscito dal vocabolario degli uomini del Senatùr. Mai stato amore folle, questo no.
Nel 1994, all’epoca del Polo delle libertà, tocca a Miglio rappresentare il Carroccio sul tavolo delle riforme e l’ideologo-senatore gongola dopo un incontro con Tatarella: «C’è cordialità». E Maroni sottoscrive: «Si può arrivare a una nuova Costituzione che contemperi federalismo e presidenzialismo». C’è un governo da fare, c’è la speranza di rivoltare il Paese come un calzino, di cambiare l’Italia da cima a fondo. Il senatore leghista Speroni parla di presidenzialismo un giorno sì e uno no con il collega di Alleanza nazionale Fisichella: «Disgelo sul tema? Non c’è mai stato gelo...». «Il federalismo - spiega Fisichella - aggrega i popoli ma occorre il contrappeso del presidenzialismo». Tutti d’amore e d’accordo.
Poi però, in via Bellerio, con Miglio son scintille e il professore si allontana da Umberto. Celebri gli schiaffoni tra i due: «Bossi? Non ha nessuna idea di cosa siano federalismo e presidenzialismo», dice il prof. Musica per le orecchie di Fini che, siamo a fine ’94, sentenzia: «Federalismo e presidenzialismo, binomio inscindibile». L’alleanza di centrodestra fa crac dopo pochi mesi di governo e per Bossi il presidenzialismo diventa tabù: «L’autentico federalismo è l’esatto contrario del presidenzialismo», sentenzia nel ’95. Sono i tempi in cui il Carroccio segue le sirene della secessione perdendo pezzi di partito oltre alla voglia di trattare sulle riforme istituzionali. Questione di pochi mesi.
Nel febbraio ’96 Tabladini e Gnutti rassicurano che «la Lega ritiene prioritaria la riforma dello Stato in senso federalista e non è disdicevole pensare al presidenzialismo». «Ci mettiamo d’accordo per fare queste benedette riforme?», sembrano chiedersi tutti in quell’inizio del 1997. Si apre così l’epoca della Bicamerale e del «patto della crostata». Sul tavolo c’è un po’ di tutto: premierato all’inglese, semipresidenzialismo alla francese, presidenzialismo puro all’americana. E ancora: maggioritario secco, doppio turno e altro. E proprio in Bicamerale c’è il colpo di scena: la Lega, fino all’ultimo recalcitrante a trattare con chicchessia, con un blitz vota a favore del semipresidenzialismo. Sei uomini del Carroccio alzano la mano al momento giusto e zac: approvato. Semipresidenzialismo batte premierato 36 a 31. Il premierato sponsorizzato da D’Alema naufraga e la zattera delle trattative cola a picco manco fosse il Titanic. Ignazio La Russa brinda: «Spero che questo sia un segnale di abbandono della strada secessionista per imboccare quella del federalismo e del presidenzialismo». In effetti la Lega piano piano muta pelle perché il «governo padano» tira poco e le «camicie verdi» iniziano a sbiadire. Il progetto secessionista si affievolisce e il Carroccio si riavvicina al centrodestra, rinsaldando i rapporti con Berlusconi e Forza Italia.
Siamo al 2001: nasce la Casa delle libertà e Berlusconi torna a Palazzo Chigi. Il Senatùr mette nel cassetto la secessione e tira fuori la «devoltion» o, come la chiama lui, la «devoluzione». «Facciamo le riforme in fretta», è la parola d’ordine del centrodestra. Fini, Bossi, Berlusconi, Casini. Tutti insieme. Più che gladiatore ora l’Umberto, ministro delle Riforme, è un giocatore di scacchi: «Io devo mediare. Se voglio portare a casa la devoluzione devo offrire qualche cosa in cambio. La coppia vincente è federalismo-presidenzialismo». È il 20 luglio 2002. Nania (An) applaude: «Quanto più i poteri si collocano nella periferia del sistema, tanto più è giusto che gli elettori esprimano con un voto il presidente della Repubblica». E ancora, parole del Senatùr: «Il presidenzialismo l’ha attivato Berlusconi. Ha messo il suo nome sulla scheda e la gente l’ha votato. Il presidenzialismo? Sì, ma bisogna prevedere anche un Senato federale, in presa diretta con il popolo». A fine anno Bossi è a Bassano Del Grappa: «Quale tipo di presidenzialismo preferisco? Quello francese».
Poi c’è il referendum del 2006 e lo smacco della bocciatura della devoluzione.

Ma il traballante governo Prodi fa patatrac e alle politiche del 2008 è di nuovo trionfo del Popolo della libertà. Per il Carroccio un altro grande successo, un’altra sfida, un altro timore: non è che il presidenzialismo annacqui la nostra bandiera? La parola d’ordine resta sempre la stessa: federalismo, federalismo, federalismo.

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