Il castello di Kafka ha trovato il suo signore, che, in una contemporaneità straniata e postindustriale, sbanda senza controllo tra l’Ulisse di Joyce e le strisce di Dilbert di Scott Adams. È Il re pallido di David Foster Wallace (Little, Brown&Co, pagg. 548, $ 27,99, per Einaudi uscirà a settembre), inno alla noia e alla burocrazia in cui i colletti bianchi dell’Agenzia delle Entrate diventano giganti del pensiero, aggregazione postuma uscita negli Stati uniti qualche giorno fa in forma di «romanzo incompiuto». Espressione ossimorica, per Wallace, che non dava alle stampe nulla che non fosse più che finito e rifinito. Ma tant’è: quando siamo scrittori di culto (Nabokov e Borges sono soltanto due tra i grandi nomi cui la miglior critica lo ha accostato), ci suicidiamo a 46 anni alle spalle di un pubblico di lettori che attende il nostro nuovo romanzo da dodici anni, lasciamo aperta la porta del garage dove eravamo soliti scrivere stracolmo di fogli e canovacci a due donne e una delle due è la nostra vedova, Karen Green, l’altra il nostro agente letterario, Bonnie Nadell, poi ci troviamo nell’impossibilità di esercitare il nostro diritto al perfezionismo.
Sicché nel 2008, due mesi dopo la morte dell’autore del monumentale Infinite Jest, come narra un reportage di Time, quando la Nadell ha trovato sulla scrivania del garage di Claremont 200 pagine di The Pale King, ha chiamato l’editor storico di Wallace, Michael Pietsch, per spallottolare gli scarti di scrittura del «genio in bandana». Pietsch ci ha messo due anni per tirarne fuori «il miglior lavoro di Wallace come romanziere», scrive Time.
Ambientato a metà anni Ottanta, ha come cornice un fisco - il 15 aprile non è stato scelto a caso come data di uscita sul mercato: è la scadenza ultima entro cui negli Stati Uniti si pagano le tasse - senza più codici etici, un’agenzia delle entrate che autogenera profitto grazie a software avanzati. «È spaventoso, come guardare un’enorme macchina che diviene cosciente, pensante, senziente come un essere umano». Almeno così scrive uno dei due David Wallace che popolano il libro, oltre all’autore, aumentando il livello di entropia narrativa. E su questo sfondo si muove una serie di personaggi incredibili, non solo surreal-adolescenziali à la Wallace, (tipo la ragazzina che come coperta di Linus ha la testa mozza di una bambola). Tra gli esattori ci sono un veggente impiegato per individuare i contabili migliori e assumerli, un altruista compulsivo e un diabolico occultista responsabile delle risorse umane.
Ora, che Il re pallido sia stato assemblato senza alcuna indicazione di Wallace, rimasticando taccuini in cui lo scrittore appuntava anche annunci di servizio a se stesso («Se voglio, la soluzione è alzarmi presto e andare in biblioteca») fino ad ottenerne 328 tra capitoli, bozze e frammenti scritti cambiando penna ad ogni paragrafo, non è un dettaglio. La vita dell’aggregatore Pietsch negli ultimi due anni è stata un inferno: «Li ho dovuti leggere tutti, annotarli, trovare l’ultima versione, rileggere tutto di nuovo, scoprire quali capitoli, messi l’uno accanto all’altro, avevano senso e trovare una cronologia, che all’inizio sembrava del tutto inesistente», confessa a Time. Alcune delle decisioni prese sono del tutto arbitrarie. Il primo capitolo magari non andava lì: «Era soltanto una bella lettera d’amore a un campo di grano dell’Illinois scritta al tempo del maggese. Non so se Wallace intendesse farne il primo capitolo». Ma secondo Pietsch ci stava bene, era un bel modo per aprire il libro. A questo punto i capelli in testa si saranno rizzati non soltanto ai puristi delle lettere.
Eppure la dicitura «Unfinished Novel» compare in copertina soltanto nell’edizione inglese, mentre gli editori americani hanno preferito un’illustrazione che si limita a “suggerire” la tormentata storia dell’assemblaggio. Il tutto ha riportato alla luce un dibattito vecchio almeno quanto la carta stampata: ha senso recuperare l’incompiuto di un autore o è meglio fare un bel falò, contro ogni tentazione, che sia frutto delle migliori - documentare, testimoniare - o delle peggiori - guadagnarci - intenzioni? C’è chi sostiene, nel caso del Re pallido, che il libro abbia andamento caotico e che non si può stabilire quanto di quel caos fosse volontario. O che siccome in un taccuino Wallace parla di «struttura a tornado», non c’è niente di male se la stesura proposta è assemblata e fruita con la logica del tornado.
Forse la risposta è in un’ammonizione epifanica, elargita dal gesuita istruttore dei «corsi di sopravvivenza alla noia» agli impiegati del centro esattoriale di Peoria, Illinois: «Signori, siete chiamati a render di conto».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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