Quando il Ticino era la base dei terroristi di mezza Europa

In un libro le storie degli esponenti dell’eversione rossa e gli appoggi oltre confine. Ma per la Svizzera quel periodo è ancora tabù

Luciana Caglio

Al Federale, in piazza Riforma a Lugano, Giangiacomo Feltrinelli bevve, agli inizi di marzo del 1972, uno dei suoi ultimi caffè. Qualche giorno dopo, il l6, il suo corpo fu ritrovato sotto un traliccio a Segrate. La presenza, nella città del Ceresio, dell’editore, aspirante rivoluzionario, non era casuale. A Lugano, e in Svizzera, Feltrinelli era di casa. Vi contava amici e correligionari e, da qui, coordinava i fili dell’organizzazione eversiva dei Gap, Gruppi Armati Proletari, vicini a Potere Operaio.
Gli intensi contatti con l’ambiente ticinese di questo protagonista degli anni di piombo sono rievocati da un diretto testimone, Francesco «Cecco» Bellosi, nel volume «Insurrezione armata», curato da Aldo Grandi e appena uscito presso la Bur. Nato e cresciuto a Colonno, sul lago di Como, Cecco ben conosceva gli itinerari segreti dei contrabbandieri che, lui stesso, entrato nelle file di PotOp, avrebbe poi percorso accompagnando, oltre frontiera, un fuggiasco di riguardo, dal volto coperto: «Ormai al sicuro, oltre la dogana svizzera, in un’osteria, davanti a una buona grappa ticinese, si tolse il passamontagna: era Giangiacomo Feltrinelli».
Da Mendrisio, l’editore partì, in treno, alla volta di Zurigo, dove incontrare altri amici e compagni di lotta, da cui ottenere un sostegno non soltanto ideologico. Si trattava di procurarsi armi destinate alle future imprese insurrezionali. E, da questo punto vi vista, la Svizzera appariva «un Paese di Bengodi». Così la definisce, in un’altra testimonianza raccolta da Aldo Grandi, Valerio Morucci, che si conquistò la qualifica di «armatore» del gruppo: «Ci passai a più riprese quasi un anno. Andavo spessissimo a comprare munizioni, caricatori, canne di pistole, giubbotti antiproiettile».
Negli primi anni 70, per nascondere questo scomodo materiale, Morucci, utilizzò un garage affittato «in un paesino di montagna che si affacciava sul lago di Lugano». Armi comprate con i soldi dell’editore o rubate dai depositi militari elvetici e soprattutto ticinesi o dalle cantine di abitazioni private, dove, allora i cittadini svizzeri conservavano il fucile ricevuto dall’esercito. A bordo di auto, debitamente attrezzate per l’uso, questa refurtiva passava la frontiera. «Nelle ore di punta - spiega Morucci - in cui rientravano i pendolari e i controlli erano piuttosto sommari».
Proprio così, la pacifica Confederazione «rifornì i rivoluzionari di tutto il continente europeo: dai tedeschi della Baader-Meinhof agli spagnoli della Lucha Armada Catalana». Da questa frontiera colabrodo non passavano soltanto armi ma anche persone alle quali la Svizzera e soprattutto il Ticino offriva un’ospitalità discreta quanto preziosa. Quando sotto i piedi degli esponenti dell’eversione, in Italia, la terra scottava, si cercava un provvidenziale rifugio oltre confine.
Il caso più inquietante fu quello di Carlo Fioroni che, dopo il sequestro e l’uccisione dell’amico Carlo Saronio, si nascose nel Cantone e vi rimase, per qualche tempo latitante, finché fu beccato mentre cercava di cambiare una parte dei soldi del riscatto. «Uno stronzo» come lo chiama Jaroslav Novak, raccontando l’incontro rocambolesco, avvenuto sempre in Ticino, fra il fuggiasco e un giornalista dell’Espresso. Molti, insomma, fra i personaggi più rappresentativi di quella stagione, da Oreste Scalzone a Toni Negri a Franco Piperno approfittarono dell’aiuto degli amici svizzeri. E adesso ne parlano, apertamente, in testimonianze che documentato un periodo ormai storicizzato, con il quale in Italia si fanno i conti.
Non così, invece, in Ticino dove, su questo passato prossimo, è calato un curioso e compatto silenzio. Qualche anno fa, il compianto Valerio Riva, collaboratore del Giornale, negli anni 60 consulente della Feltrinelli, tentò, a Lugano, di ottenere informazioni sulle frequentazioni locali dell’editore. Scontrandosi con una sorta d’impaurito riserbo. Anche se, negli anni Novanta, le vicende di un luganese, Alvaro Lojacono, implicato nel rapimento Moro, rivelarono strette connessioni fra Ticino e anni di piombo, si preferì, poi, voltare pagina.

Nel Cantone, la storiografia, impegnata con occhio critico a studiare gli anni della guerra e della politica di asilo, si ferma prudentemente di fronte agli eventi del dopoguerra. Un capitolo ancora da esplorare. Forse, per qualcuno, un tabù imbarazzante.

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