Quegli ebrei capaci di "Salvarsi a vanvera"

Paolo Colagrande è nato a Piacenza il 12 luglio 1960. "Salvarsi a vanvera" è il suo sesto romanzo. Ha pubblicato inoltre alcuni racconti su "Linus"

Quegli ebrei capaci di "Salvarsi a vanvera"

Può capitare di tutto, in un'economia di guerra: per esempio che un commerciante sospettato di essere ebreo stabilisca relazioni proficue con l'ufficiale che ne tiene in pugno il destino, visto che sulla sua scrivania giace il librone con la lista completa dei nomi dei figli di Israele, compreso quello del protagonista, Mozenic Aràd. Sembrerebbe l'ennesima storia sulla Shoah e in un certo senso lo è, solo che si tratta anche del nuovo romanzo di Paolo Colagrande e questo cambia ogni cosa. Per cominciare, il tono di Salvarsi a vanvera (Einaudi) è quello della commedia e con più di un salto nella pura goliardia.

Basta prendere la pagina in cui Aràd, nel corso di una requisizione, rifila ai tedeschi del «caffè di ghiande, dei fagioli che non van bene neanche per la tombola e una cinquantina di tavolette di cioccolata di castagne dura come mattonelle di gres; e alla fine, come devoto omaggio, anche un carrello di Ovocrema Astrid vecchia di sette anni, che era più prudente buttar via, insieme a delle scatole di caviale di colla di pesce e cicoria, marca Babilonia, tinta per capelli Ordzak tonalità nero aubergine e gran crema de luxe Florence per calzature»: merce di prima scelta, si fa per dire, proveniente dai magazzini d'Elisir, di cui Aràd è il titolare. Il gioco di maschere continua in casa, un comune appartamento detto «la monocellula»: la moglie del titolare è «cresciuta all'Educandato Caritativo delle Orfanelle delle Monache Benedettine dell'Adorazione Perpetua del Santissimo Sacramento, dove era arrivata orfana a sette anni per volontà della badessa che l'aveva strappata alla comunità israelita di appartenenza per avviarla alla religione di Gesù Cristo sceso in terra». La famiglia comprende anche due bambine, ma a riportare la lancetta delle stranezze in alto contribuisce il trovatello di quattro anni pescato in un vagone ferroviario senza parenti attorno e poi adottato, il «bambino Cali»; il piccolo stringeva fra le mani un bussolotto che non consegnerà mai a nessuno e un biglietto ferroviario intestato al Cavalier Celerino Scovaloturco. Rintracciato l'uomo, gli si manda un telegramma, «rinvenuto tasca bambino cali documento viaggio intestatole. pregasi contatto», che genera una risposta di questo tenore: «documento viaggio scaduto. buttare pure. cavalier celerino scovaloturco». Ci sarà un terzo telegramma («permane problema bambino cali. gradito cortese riscontro»), ma lasciamo perdere. Un giorno, durante un'escursione, il bambino Cali scopre un gigantesco giacimento di carbone. La miniera, allestita e organizzata grazie al prezioso contributo dei nazisti, darà lavoro a più di cento operai, quasi tutti ebrei o meglio quasi tutti «con problemi cromosomici e tare genetiche», per usare il gergo razzista che Colagrande trasforma in formule esilaranti. E perché assumere gli ebrei? Ma è ovvio: perché da tempo immemorabile, nel luogo dove ora si apre la miniera, si aggira la salamandra ignifera gigante cinese, un mostro che uccide in vari modi, per esempio facendo scoppiare la testa ai galli silvestri di passaggio; ma gli ebrei non la temono.

Scritto dimostrando un amore senza limiti per la lingua, in un gioco labirintico ma trasparente di beffe e tiri mancini, Salvarsi a vanvera si avvantaggia dello strumentario essenziale del romanziere: il bambino perduto, il luogo infestato, il gruppo

perseguitato che gioca un tiro ai persecutori: armi che i grandi scrittori hanno sempre brandito magistralmente e senza scrupoli. E hanno fatto bene a brandirle perché i lettori, e stavolta più che mai, sentitamente ringraziano.

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