Quei compagni che vivono nel passato

Il primo sospetto - di lì a poco certezza - mi aveva attraversato la mente già dal primo giorno dell’assise nazionale di Rifondazione comunista. Era proprio all’atto di avvio. Quando l’ex senatrice Erminia Emprin, arcigna e segaligna presidente della Commissione per il congresso, ha iniziato a elencare i 60 componenti dell’organismo. «Il compagno Pinco, la compagna Pallo, il compagno Sempronio, la compagna...».
Credevo che quell’insistenza fosse soltanto un pro forma iniziale. E invece via così, implacabile, con quel «compagno» come premessa irrinunciabile, quasi un prefisso umano ripetuto ossessivamente 60 volte. Non basta essere Mario, o Luisa, o Antonio. Prima, «devi» essere appunto «il compagno».
Ora dopo ora e giorno dopo giorno, trovava fondamento e cresceva la certezza di trovarmi in un mondo «a parte», avulso dalla realtà di quello esterno - bello, brutto o passabile che sia. Non tanto per gli interventi dei big - alcuni dei quali di elevato livello - quanto per le voci dei delegati senza nome. Dei peones, insomma.
E quando, al terzo giorno, mi sono trovato ad annotare la frase di una giovane delegata di Bologna - «Compagni e compagne, dobbiamo organizzare la soggettività dei migranti» - ho compreso che non avevo più bisogno d’altro. Bastava un taccuino colmo di criptiche, fumose e a volte solo inguenue astruserie del genere, per confermarmi che la profonda crisi di questo partito, e insieme ad essa quella della sinistra estrema italiana (Verdi compresi), naufragata alle ultime elezioni politiche, è da attribuire a una sorta di prolungato stato di coma.
Sì, ho avuto come la sensazione che un pezzo della società italiana - per fortuna, visti i numeri usciti dalle urne, un pezzo nettamente minoritario - si fosse assopito per qualche decennio. Per poi risvegliarsi di colpo. Scoprendo di trovarsi in un mondo radicalmente cambiato, dove nel frattempo erano caduti muri fatti di mattoni e vergogna, erano crollati tanti feroci dittatori, si erano vaporizzate ideologie ottocentesche e dissolti anche i loro simboli retorici.
Ed era successo anche altro: c’era stata la rivoluzione della conoscenza, finalmente libera di circolare dovunque e a costi irrisori grazie a Internet; era cambiato il lavoro, il modo di lavorare - vivaddio, compagni, meno catene di montaggio! - e insieme ad esso la società, anche quella italiana, dove pezzi di un Paese che un tempo erano miseri serbatoi di misere braccia da emigrazione sono diventati ricchi e produttivi. Per esempio il Veneto. Quello passato dalla pellagra a essere la regione a più alta densità d’imprese di tutta Europa, e non quello di fantasia che ho sentito descrivere da un delegato trevigiano.
Certo, ci sono problemi anche lì. Ci sono stridori sociali e sacche di nuova povertà che non si possono ignorare. Il problema è che voi ignorate il resto, quella ricchezza diffusa che c’è comunque (nel Paese e altrove) rispetto al passato in cui voi vi siete addormentati. Ed è proprio il capitalismo di cui parlate come fosse la peste, quello che sta vestendo, nutrendo, educando e facendo muovere libere nel mondo masse che prima erano soltanto disperato Terzo mondo. Ma voi non ve ne accorgete. Per citare uno che dovrebbe risultarvi familiare e gradito, il compagno Mao, voi guardate la foglia ma non vedete la foresta. Forse non la volete vedere. O forse è appunto il fatto che vi ostinate a vivere in un mondo del passato dove vi sentite al calduccio, confortevole perché è l’unico che conoscete.
L’ho constatato scorrendo i titoli dei libri nelle vostre bancarelle a Chianciano: si andava dall’autobiografia della preistorica pantera nera Angela Davis (svegliatevi compagni, c’è un certo Obama in corsa per la Casa Bianca!) a una Storia delle Brigate rosse passando da un volume sul ’68. E l’ho anche sentito nei vostri interventi: perlopiù ansiogeni, rancorosi e spesso anche insopportabilmente piagnoni.

In due parole, apparite grottescamente nostalgici, proprio come quei vecchietti che rimpiangendo il ventennio sostengono che «a quel tempo i treni arrivavano puntuali». Beh, io preferisco senza dubbio quelli odierni, che magari si rompono e arrivano in ritardo. Cosa volete, se proprio devo scegliere, meglio libero che puntuale!

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