Quei soldati in missione di guerra

Navicello racconta le vicende di alcuni militari spediti nei Balcani. Che tornano disillusi

Quei soldati in missione di guerra

Cosa significa vivere sotto le armi? Da una ventina d'anni, i ragazzi non hanno più la naja, la leva obbligatoria. Per capire di che si trattasse, devono chiedere al papà, allo zio, magari al nonno: hanno tutti delle storie da raccontare, piacevoli o spiacevoli. E magari, come si vede anche nel film Soldati 365 all'alba di Marco Risi, proprio nel giorno prima del congedo sono stati sbattuti su un aeroplano Hercules e fatti trasvolare a fare la guerra nei Balcani, ex Jugoslavia. Ho scritto «guerra». Non si dice e non si scrive, la guerra è vietata dall'articolo 11 della Costituzione, che in compenso rende obbligatoria l'ipocrisia. Per cui mi correggo: missione di pace. Una missione di pace con le armi in mano.

Io la naja l'ho fatta. È stata una naja un po' particolare: tra i miei compagni c'era anche Gianni Rivera. Era il 1964, un'eternità di tempo fa. Il bello è che la mia prima destinazione è stata anche quella del protagonista del crudo e insieme gustoso romanzo di Giovanni Luigi Navicello (Dannati e condannati - Welcome to Sarajevo, Cairo editore, pagg. 256, euro 16,50): il Car di Orvieto. Per chi non lo sapesse o non se lo ricordasse, il Car non è altro che il Centro addestramento reclute. Da lì è passato Matteo Lovoci, chiamato a servizio della Patria, costretto a lasciare la natia Lucania per andare a dispensare pace in Bosnia, a Sarajevo: lo avrete capito, si parla della sanguinosa guerra dei primi anni Novanta, quella che ripiombò l'Europa in un clima e un'epoca che si credeva sepolta cinquant'anni prima. Lo scenario del romanzo è quella terra sconosciuta e divorata da odi etnici e religiosi in cui sono catapultati ragazzi italiani ignari.

Il ruolo da protagonista di Lovoci, in realtà, è casuale. Non ha una particolare caratura di eroismo rispetto ai commilitoni. Navicello avrebbe potuto scegliere di raccontare la spedizione militare dal punto di vista di uno qualunque di questi «bravi ragazzi» in divisa, nessuno dei quali è speciale, o rifulge come condottiero, eppure tutti sono unici, eccezionali nel loro essere tipi italiani ognuno differente dall'altro. Il lucano Matteo si trova a fraternizzare con Benito Brega, pavese dell'Oltrepò; con Angelo Parisi, siculo, pescatore, nativo di Mazara del Vallo, il posto da cui le imbarcazioni partono per pescare i gamberi più buoni del mondo; col caporale Antonio Riccio, partenopeo doc, del Rione Sanità; con un altro caporale, Gregorio Liviero, in arrivo da Ciorlano, un paese di 300 anime tra Campania e Molise. La leva era così: un melting pot di storie, di persone da tutta Italia. E una babele di lingue. Oggi la situazione è diversa, ma nel 1964 la televisione non aveva ancora propiziato la diffusione dell'italiano standard nelle case della gente, e molti erano analfabeti, si esprimevano nel loro dialetto originario. Navicello, con un certo anacronismo, ha provato a rievocare questo clima anche in un'epoca del tutto diversa, quella del 1994. E fa parlare ogni soldato con la sua propria lingua, ricostruendo con la precisione di un glottologo le parlate locali. Attorno, ci imbastisce un microcosmo: quando è di scena un personaggio, il suo linguaggio prorompe non solo nel discorso diretto, ma anche nella prosa che lo contorna. Così, il racconto della vita di Lovoci avviene in un contesto sceneggiato in lingua lucana, come il dialetto siciliano costella le vicende di Parisi, e una macedonia di espressioni lombarde fa da corona ambientale ai pensieri di Benito Brega. Ma appaiono altre lingue ancora, quando arrivano altri soldati, loro senza nome ma ciascuno con il Dna inconfondibile della piccola patria che li ha covati come pulcini. L'effetto della leva militare è - anzi era - questo: la coesione di un gruppo di umani che non si sono scelti, provenienti da angoli diversi del Paese, con poco o nulla in comune, incomunicabili con le parole ma che si capiscono lo stesso. E i ricordi della vita al paesello, o nella loro città, rivivono - ecco una peculiarità del libro - attraverso le reminiscenze culinarie. Navicello racconta le differenti antropologie a partire dall'elemento gastronomico: in più punti, appaiono ingredienti o piatti che hanno evidentemente un'importanza culturale essenziale nel definire l'identità profonda di ciascuno dei personaggi, e questo vale per ognuno di noi. Le melanzane al caciocavallo dei paesani di Lovoci, per esempio. O il risotto ai fagioli borlotti di Gambolò decantato da Benito, uno che a tavola, prima ancora che cibo, versa mestoli di parole: un'intera pagina, la pagina 78, è dedicata a questo soldato lombardo che spiega il perché e il percome vada preparato quel risotto, se ne sente il sapore che arriva da nebbie di secoli. Del resto, quando si va lontano, la prima nostalgia è proprio quella della cucina.

Il profumo delle pietanze di casa addolcisce ma non toglie l'amaro di una missione militare di cui l'autore rileva il tasso di fariseismo: «Dalle creste orientali del monte Igman avevano ferito la città per anni, ma ora si poteva, ora la pace arrivata a plotoni e cannoni poteva traversare a fari accesi Sarajevo anche se qualcuno poteva ancora morire, ma in pace», recrimina con amaro sarcasmo. L'epilogo è ancora più aspro: «Matteo Lovoci, partito fidandosi delle parole è una missione di pace, tenente, tornava non fidandosi più nemmeno di sé stesso.

Partito con dei limiti morali che considerava invalicabili, tornava dopo averli superati uno dopo l'altro, dopo l'altro, dopo l'altro. Andato sicuro di essere nel giusto, tornava consapevole che il giusto non esiste». La verità è che la guerra non vuole farla nessuno, e non serve a nulla, nemmeno se la chiamano «missione di pace».

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