In quel carteggio tutti i dubbi della politica del Professore

La polemica epistolare mette in luce le contraddizioni di un esecutivo che oggi appare bloccato sulla riduzione della spesa

Gian Battista Bozzo

da Roma

Il carteggio elettronico fra Tommaso Padoa-Schioppa e Francesco Giavazzi potrebbe anche essere presto archiviato nella cartella «polemiche estive fra economisti irritabili», se non nascondesse in realtà una questione essenziale: qual è, e quale sarà, la politica economica del governo Prodi.
Per comprendere meglio il nodo della contesa è necessario ritornare indietro di qualche mese, per la precisione alla cosiddetta due diligence sui conti dello Stato da parte della commissione guidata dall’economista Riccardo Faini. All’indomani delle elezioni, dal centrosinistra si levò alto il grido: al buco, al buco! Il ministro dell’Economia, appena insediatosi in via XX Settembre, disse che i conti ricordavano quelli del ’92, anno in cui un suo predecessore, il professor Piero Barucci, preparò addirittura una bozza di discorso per annunciare in Parlamento il default. La commissione Faini, dopo discussioni incandescenti al suo interno e pur abbondando di aggettivi per descrivere la gravità della situazione, dovette però concludere che il deficit 2006 non avrebbe superato il 4,1% del pil contro il 3,8% previsto dal precedente governo. L’andamento del fabbisogno di cassa degli ultimi mesi, l’incremento delle entrate tributarie e alcuni meccanismi tremontiani di controllo delle uscite, stanno facendo sì che il deficit vada ancor meglio delle stime. Il buco, in realtà, non c’è: e infatti non se parla più. Resta da affrontare, in prospettiva, la rapidità di crescita della spesa pubblica.
Con questo scenario alle spalle, Romano Prodi e i suoi ministri economici incontrano in luglio sindacati e imprese, alla vigilia del Dpef. «Padoa-Schioppa e gli altri ci hanno parlato soltanto di tagli - ha raccontato al Giornale il segretario della Cisl Raffaele Bonanni -: l’intero establishment politico-industriale era d’accordo su una manovra fatta quasi esclusivamente di tagli di spesa pubblica, senza interventi sulle entrate fiscali». Il centrosinistra, evidentemente, era rimasto più che scottato dall’andamento della campagna elettorale. La polemica sul fisco, le tasse sulle rendite finanziarie, la reintroduzione dell’imposta di successione, avevano quasi fatto perdere le elezioni a Prodi, e comunque avevano minato la solidità della maggioranza in Parlamento. L’argomento tasse sembrava diventato un tabù.
Qualcosa, però, da allora è cambiato. Il decreto Bersani-Visco - in cui, abilmente, le strombazzate liberalizzazioni del primo oscuravano le misure fiscali del secondo - conteneva una correzione dei conti 2006 che non superavano lo 0,1% del pil. In compenso il «superviceministro» delle Finanze vi aveva inserito una prima ondata di misure anti-evasione che appare solo l’avanguardia di altri interventi, a partire dalla nuova anagrafe tributaria fino alla revisione degli studi di settore. Visco è diventato il punto di riferimento della politica economica, Prodi ha parlato esplicitamente di autonomi che evadono, l’establishment che aveva pensato ai tagli di spesa (o chiamateli come volete: riforme, razionalizzazioni, risparmi) è stato bruscamente richiamato alla realtà, fra gli applausi del sindacato e della sinistra radicale.
Che cos’era successo? Cgil, Cisl e Uil, che costituiscono l’azionista di maggioranza di questo governo, hanno chiarito a Prodi e Padoa-Schioppa che lo stato sociale non si tocca: bisogna invece far pagare più tasse a chi evade. I Ds si sono subito allineati. Pensioni, sanità, pubblico impiego sono diventati argomenti scottanti, e infatti guardate un po’ che cosa è successo a partire da quel momento. Sulla previdenza, il ministro Damiano propone uno scambio fra un eventuale aumento dell’età pensionabile, però su base volontaria, e la rinuncia allo «scalone Maroni» (60 anni obbligatori dal 2008) ed alla revisione dei coefficienti per il calcolo della pensione previsti dalla riforma Dini. Si rinuncia a risparmi certi ed immediati, a favore di altri risparmi, incerti e futuribili. Di Sanità non si parla, se non per la vendita delle aspirine nei banchi delle Coop. La timida proposta del ministro Nicolais, quattro miliardi di euro in tre anni per i contratti pubblici, è stata respinta al mittente dai sindacati indignati. Bisognerà stanziare di più.
Che cosa resta allora dei tagli di spesa? Questa la domanda chiave della polemica TPS-Giavazzi. Il Documento di programmazione economica e finanziaria parla esplicitamente di interventi riformatori per le pensioni, la sanità, il pubblico impiego. Riforme che dovrebbero significare risparmi, ma che visto l’andazzo estivo difficilmente troveremo nell’articolato della legge finanziaria. Gli interventi per lo sviluppo - leggi, la riduzione del cuneo fiscale per 10 miliardi promessa da Prodi alle imprese - non potranno che essere finanziati con un parallelo aumento delle tasse. Bisogna ricordare che l’Europa non concede ai governi di computare nel bilancio eventuali proventi dalla lotta all’evasione fiscale; dunque dovrà essere deciso qualcosa di concreto, e la promessa revisione delle aliquote Irpef è cosa concreta assai.

Ecco perché il carteggio fra il ministro e il professore non interessa soltanto il centinaio di politici ed economisti compresi nella mailing list di Padoa-Schioppa. La sera del 30 settembre, quando il Consiglio dei ministri varerà la finanziaria, sapremo se aveva ragione TPS oppure il Bocconiano; ma soprattutto sapremo a chi tocca pagare il pasto per tutti.

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