Quel pezzo di Milano nella guerra in Libia

Da Montanelli a Buzzati, da Chiarelli a Vergani: nelle pagine del testo si ripercorre la vita quotidiana di chi riportava le gesta delle nostre truppe nei conflitti dell’epoca fascista

Dai nostri inviati a Giarabub è il titolo d’un libro di Fabio Fattore (editore Mursia, 365 pagine, 19,50 euro). L’oasi di Giarabub, così evocata, ha una risonanza leggendaria nella storia militare italiana. Questo caposaldo libico - a una trentina di chilometri dalla frontiera egiziana - era rimasto isolato dopo l’offensiva inglese dell’inverno ’40-41. Il maggiore che comandava il presidio, Salvatore Castagna - avrebbe meritato un grado più alto, ma era stato penalizzato dall’essere celibe - decise di resistere agli inglesi benché fra le truppe coloniali ai suoi ordini vi fossero state diserzioni massicce. L’eroica lotta durò fino al 20 marzo 1941, quando la guarnigione fu sopraffatta. L’epopea di Giarabub venne ricordata da una canzone divenuta popolarissima («Colonnello non voglio pane etc. etc...») e da un film di propaganda bellica diretto da Goffredo Alessandrini.
Ma la Giarabub cui s’è dedicato - basandosi su testimonianze e su una accurata documentazione - il trentottenne Fattore, cosa c’entra con Milano? C’entra, almeno nella mia ottica, perché queste pagine - che in buona sostanza ripercorrono le vicende del giornalismo italiano nelle guerre fasciste - Etiopia, Spagna, la seconda mondiale - sono gremite dei nomi di colleghi con i quali ho avuto consuetudine di lavoro e amicizia: e nella maggior parte avevano come città di riferimento Milano, capitale dell’editoria e del giornalismo.
Primo tra tutti, naturalmente, Indro Montanelli. Ma anche Cesco Tomaselli che divideva con me un ufficetto all’ultimo piano del Corriere della Sera: lui finito lì come senatore un po’ emarginato, io come giovane promessa (in un attimo si passa dal ruolo di giovane promessa a quello di vecchio rincoglionito, così è la vita). E poi Dino Buzzati che, abbandonate le amate navi su cui era stato imbarcato durante il conflitto, si sdoppiava tra la sua creatività arcana di scrittore e l’artigianale - e geniale - confezione d’un settimanale popolare come la Domenica del Corriere: successivamente distrutto da chi lo voleva fare più bello ed elegante. E Orio Vergani con cui vissi l’alluvione del Polesine («l’unica notizia, commentava con la sua ironia bonaria, è “quanta acqua”») e Max David e tanti altri. Tra loro uno che non era nei ranghi milanesi ma in quelli piemontesi, Paolo Monelli: insieme al quale fui in Israele per la guerra arabo-israeliana del 1956. Monelli ostentava snobisticamente il monocolo ma era uomo di straordinaria dolcezza e di straordinario talento. Proprio in Israele fu fulminato da un telegramma del bizzoso e talentuoso direttore della Stampa, Giulio De Benedetti - che lo aveva in antipatia per le note spese troppo elevate - così concepito: «Notiziario superato, varietà troppo frivola. Se non riesci migliorare torna primo aereo». Tornò primo aereo.
In questo elenco di scomparsi e rimpianti figura Ferdinando Chiarelli, che ho conosciuto quando era redattore capo del Corriere d’Informazione, lo sbarazzino fratello minore del Corriere della Sera. Chiarelli è strettamente legato a Giarabub perché con alcuni altri giornalisti potè visitare il caposaldo prima dell’assedio, e ne scrisse con emozione e partecipazione. Il figlio Paolo ricorda nella presentazione del volume che Ferdinando Chiarelli fu stroncato da un infarto il 6 ottobre 1962, quando lui Paolo aveva diciannove anni.
I corrispondenti di guerra sono sempre «embedded», come si usa dire nel gergo angloitaliano d’oggi, ossia controllati dai comandi. Lo sono in particolar modo se ai condizionamenti militari s’aggiungono quelli d’un regime autoritario, e se oltretutto la guerra va di peste. M’è capitato di rileggere cronache d’allora, e ve ne sono di smaccate nel trionfalismo e nell’ossequio al Duce. Ma i più bravi tra gli inviati - esemplari in proposito i reportage di Montanelli dall’Albania - non volendo mentire, e non potendo dire che le buscavamo, si rifugiavano nel bozzetto, usavano la lente d’ingrandimento e non il cannocchiale. Paolo Monelli mi raccontava un giorno della disperazione da cui erano stati colti gli inviati in Libia al seguito di Mussolini che sperava, sulla scia delle conquiste di Rommel, d’entrare a cavallo in Alessandria d’Egitto.

Ma l’ultima avanzata non ci fu, le giornate trascorrevano tediose in inutili gite del Duce. Notizie zero. A un certo punto uno degli inviati ne vide un altro che annotava qualcosa su un taccuino e sospettando che avesse avuto una dritta, andò a sbirciare. Sul taccuino c’era scritto: «Clima imperiale».

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