Il nostro dialetto possedeva tante parole, molte delle quali ormai dimenticate, riferite al Natale ed ai giorni di festa di dicembre e gennaio. Penso sia bello ricordarle in questi giorni con l'augurio che esse possano tornare ad essere usate nelle nostre famiglie, nel mondo del lavoro, assieme agli amici.
A cominciare dal giorno di Natale che i nostri vecchi chiamavano «Denâ» derivandolo dal latino Deis natalis, il natale di Dio. Ma venti giorni prima, alla vigilia dell'Immacolata, i genovesi praticavano il digiuno, «u zazün du fürmine» forse così chiamato per il suo rigore: una tazza di caffè e pane ed acqua per tutto il giorno. Un digiuno certamente legato all'Avvento ma che forse voleva preparare alla grande «begûdda» natalizia, quando il giorno di Natale era caratterizzato da un pranzo che da mezzogiorno si prolungava sino a tarda sera. Tant'è vero che una vecchia filastrocca recitava che «quande a Zéna ven Natale ciaschedun mangia pe' döi». E tra i cibi, tanti termini ormai dimenticati: «I maccaruin» in brodo, oppure conditi con il «tuccu» di carne, erano nel classico «tundu de Natale» il piatto natalizio; non a caso erano anche chiamati «natalin». Poi «u bibin» il tacchino, «i funzi in addubbu» i porcini sott'olio, «u cappun magru» quell'antipasto genovese dove erano disposte, in una forma tipo budino, le verdure comprate dal «besagnin», i pesci, la salsa verde. Non mancavano mai i «berodi» quei saporiti sanguinacci ormai quasi introvabili. E al termine del pasto l'immancabile «panduçe» con «a ramma» di «oufêuggiu», l'alloro, piantato «in tu tascellu de çimma», e nell'impasto «u zebibbu», l'uvetta, con i «cetroin» canditi. In qualche paese della riviera e delle valli con l'impasto del pandolce si preparava anche «a cumba», la colomba, che a mezzanotte avrebbe cantato annunciando la nascita «du Segnö» del Signore.
Un pranzo al termine del quale si restava forse un po' «abbessiï», intorpiditi e assonnati a contemplare i presepio, fatto col «bürciu» il muschio raccolto nei boschi e le celebri statuine di Albissola popolarmente chiamate «macachi». Ed ogni statuina aveva il suo nome: «Gelindo», «Manena», «Bastian». Statuine comprate magari sui "banchetti" che nelle festività animavano «Ciassa Nêuva» davanti a Palazzo Ducale; su quei banchi, distribuito «abbrettiu», si trovava un po' di tutto, dai giocattoli, agli attrezzi da cucina, ai «sioti» i cerotti miracolosi per curare le lombaggini.
In quei giorni i negozianti donavano un dolce, una salsiccia, un torrone ai loro clienti più affezionati: era il «dinâ da nuxe» e qualche giorno prima del Natale «l'Abbou du populu» consegnava al Doge il «Cunfêugu» in segno di reciproca stima e amicizia, ma anche per ricordargli quanto il popolo si aspettava dai governanti.
Passato il Natale i genovesi chiudevano le feste con la «Pasqueta», nome col quale, come in qualche altra località italiana, si indicava il giorno dell'Epifania, la ricorrenza religiosa importante dell'anno prima della Pasqua e secondo il detto «Epifagna, gianca lazagna» in quel giorno la lasagna col pesto era il piatto obbligato.
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