Quelle tessere di partito assegnate per forza ai banchieri

Ma ha senso descrivere la partita recentemente consumata tra Rcs, Mediobanca, Generali con code negli assetti di Unicredit e Intesa San Paolo come una battaglia non tra segmenti del potere finanziario ma tra partiti?

Ma ha senso descrivere la partita recentemente consumata tra Rcs, Mediobanca, Generali con code negli assetti di Unicredit e Intesa San Paolo come una battaglia non tra segmenti del potere finanziario ma tra partiti? Il partito di Berlusconi distinto da quello di Tremonti con un supposto partito Udc che si scontra con la Lega per il controllo delle fondazioni? In realtà l’unico partito veramente in campo è stato quello della Repubblica che, dosando premi e punizioni, ha cercato di determinare assetti interessanti per il suo editore, teso a ritrovare un ruolo sulla scena italiana. Collegato a questa intelligente strategia mediatica c’è stato una specie di tentativo di rilanciare il fantasma del Partito Fiat o laicista, che ha raccolto qualche punto grazie all’appoggio della testata debenedettiana ma che è strategicamente fuori gioco perché il perno dell’eventuale partito del Lingotto, Sergio Marchionne, ha in testa solo un’impresa multinazionale: e forse per questo motivo è stato punito con false indiscrezioni su prossimi licenziamenti.
Per il resto spiegare gli assestamenti in atto come manovre di «partito» è soprattutto ridicolo con punte surreali quando si descrive l’ex presidente di Regione, poi senatore, poi responsabile degli Enti locali come il tecnico purissimo, e il banchiere venuto su alla scuola di Guido Carli come l’essenza dell’intelligenza politica. O quando si indica bravi imprenditori che in vita loro si sono occupati solo di fondi e assicurazioni come militanti politicizzati (da Doris a Geronzi passando per Ligresti) mentre gli apolitici sarebbero quelli che facevano la fila per eleggere un segretario di partito, come Salza o Profumo.
Il problema è che da una parte un grande banchiere non può non fare politica (se no perché repubblicani o democratici quando conquistano la Casa Bianca si portano sempre un uomo di Goldman Sachs?), ma il sistema di influenza dei partiti da Prima Repubblica è finito: Giulio Tremonti lo voleva seppellire separando le fondazioni dalla gestione delle proprietà nelle banche, con le fondazioni impegnate nelle attività sociali e gestori specializzati che curavano le partecipazioni. Obiettivo troppo coraggioso che gli valse il momentaneo licenziamento tra gli applausi di quelli che non vogliono la politica nelle banche. Poi c’è stato un tentativo di restaurazione irizzante di Romano Prodi. Fallito come tutto il suo ultimo governo. Ora c’è un problema sistemico più complesso che se lo si prende dal versante «c’è troppa politica nelle banche» non si va da nessuna parte. Il sistema ha bisogno di un equilibrio tra stabilizzazione (in parte garantita dalle fondazioni e dalla grandezza dei due principali istituti), apertura (che in parte c’è anche verso l’estero ma senza un vero equilibrio per cui siamo esposti a tutti i tipi di scemenze, per esempio quella dell’esaltazione dell’Abn Amro come esempio della morale calvinista olandese - rileggere i commentatori di oggi nei loro scritti di sei anni fa - con possibili rischi per la stabilizzazione prima sottolineata), infine c’è un problema di efficacia. L’unica banca che è veramente restata all’altezza della sua grande eredità è Mediobanca forse perché non è cambiata strutturalmente.

Mentre il supporto del territorio, la capacità di leggere e accompagnare grandi piani della nostra industria, di intervenire all'estero a fianco dei nostri gruppi, in diversi casi sono inferiori a quelli che all'inizio degli anni Novanta fornivano alcuni nostri gruppi bancari. Questo mi sembra il vero problema su cui concentrarsi.

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