La Quercia di potere e forchetta

Luca Telese

da Roma

Ecco, alla fine i diessini romani sono diventati anche loro Cafonal, nel senso più esteso del termine, quello etimologico, simbolico e «Dagospiistico». Perché è chiaro che se non ci fosse Dagospia avremmo raccontato comunque questa serata di fauci democratiche, ma sicuramente in modo diverso. Ci sarebbe sfuggita, per esempio, la dimensione ormai industriale della gastropolitica-diessina, la logistica da vettovagliamento di massa, l’incrocio tra Potere e Forchetta, il vippaio declinato per coperto, la crème economica della Capitale che accorre a riempire 360 tavoli da 10 coperti, in onore di Goffredone Bettini, nume dell’Auditorium romano, guru del partito capitolino candidato alla Camera dei Ds.
Cafonal-elettoral, titola Dagospia, e si diverte a costruire uno dei suoi puzzle mostruosi in cui tutte le testoline si affollano: bocche piene, vestiti da sera, scolli siliconati, gambe pitonate e potenti sogghignanti. Bene, il «Bettini-day» è a suo modo un punto di non ritorno, uno zenith che azzera tutto sull’asse del costume italiano, una nemesi beffarda, perché da sempre la sinistra si è percepita come il contrario di quello che la sua classe dirigente è diventata oggi. Che i militanti delle bistecchiere e delle feste dell’Unità siano guardati con una punta di sussiego dai loro stessi leader è ormai noto, ma mai è stato così plateale il ribaltamento di senso e ragione sociale: a fare gli onori di casa c’era ovviamente la «balia paffuta» Maurizio Costanzo, quello di cui nelle sezioni si ricorda l’iscrizione alla P2. E c’era quel Francesco Gaetano Caltagirone che per Rifondazione, Verdi e base diessina è l’uomo del sacco di Tormarancia, quello delle cubature e del cemento. E verrebbe da chiedersi perché - invece del direttore de Il Manifesto o della bella chioma bianca della Rossanda - troneggiasse la chioma dell’editore de Il Tempo Domenico Bonifaci, uno che edita il giornale più conservatore e nostalgico d’Italia, ma poi mette mano al portafoglio per finanziare il partito di governo capitolino.
Ai tavoli c’è ancora qualche quadro della Quercia che osserva questa rivoluzione antropologica a metà fra impotenza e dispetto: ti spiegano a mezzabocca che oggi ci vogliono 100mila euro per una campagna elettorale in Comune, che con questi volumi, a Roma, servono i denari dei costruttori. Ti spiegano che nelle liste unitarie devi competere con i vecchi dragatori di voti democristiani, che hai bisogno di soldi, soldi, soldi, e che i soldi stanno selezionando darwinianamente la nuova classe dirigente diessina: addio militanti sognatori, dentro chi ha capitali, reti, relazioni, quelli che possono garantire e contrattare con i poteri forti.
Cesare Romiti era forse il più a sinistra tra gli ospiti della serata, uno che si toglie la soddisfazione di difendere il buon nome di Enrico Berlinguer da Piero Fassino quando ne presenta i libri. Ma cosa c’entrano con la sinistra capitani di frontiera come Giancarlo Elia Valori (simpaticamente postdemocristiano e lucidamente tinto) o Raffaele Ranucci, uno che prima era quasi azzurro, poi quasi udicino, e ora ovviamente è quasi «bettiniano»: sempre quasi, purché dopo ci sia comunque il potere. E poi ovviamente c’è la gens nova del generone municipalizzato ulivista, i Chicchitesta, i Fulvivento, i Massimitabacchiera, piazzati qui e lì nelle casematte delle grandi aziende pubbliche, dal parafunzionariato di partito al management in un decennio, con generosa sottoscrizione di coperto. E i vip: ovviamente Silvio Muccino che di questi tempi ha la promozione del film, Gigi Proietti (sempre er più), e Barbara Palombelli, che mai come stasera ti fa venire in mente la bellissima parodia di Sabina Guzzanti: «Signora mia, lei non sa quanto mi sento vicina ai problemi della ggenteh: il carpaccio di vitella e il tartufo bianco, a Sabbaudia, sono a quotazioni proibitive».
C’è poi quella foto con Francesco Gaetano e Bettini di profilo, che si parlano, che ti colpisce non sai perché. Poi la riguardi e ti accorgi che quella foto, con il costruttore che cinge il braccio protettivo e il diessino che sorride curiale, beh, quella foto è un simbolo.
Sarebbe semplificatorio, ingeneroso, sciocco.

Bisognerebbe fare il contrario, prendere questo Cafonal grandguignolesco come un outing antropologico, e chiedere a Bettini solo un piccolo atto di coraggio: lo trasformi in un album e lo porti nelle sezioni dove girerà per chiedere voti, lo porti fra i «non-arrivo-a fine-mese», e spieghi loro solo la distanza fra la foto seppiata con Pasolini e quelle policromatiche di oggi.
Luca Telese

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