Ma questo conflitto non turba gli italiani

Il nostro popolo è troppo scettico per credere che in Libia ci siano gli integralmente buoni e gli integralmente cattivi

Forse sarà il caso di risfo­derare una terminologia d’antan , e di definire «non belligeranza»l’attuale posi­zione dell’Italia - e non solo dell’Italia - nella crisi libica. Temibili ordigni bellici co­me i Tornado si alzano in vo­lo con la consegna di non sparare essendo oltretutto privi di ordini emanati dal comando supremo inesi­stente d’una coalizione fantasma. Solo pochi giorni or sono il quadro era molto diverso. «Bando ai giri di parole, l’Italia entra in guerra»aveva scritto Alessandro Sallusti esprimendo una convinzione pressoché unanime. Nulla da eccepire. Quando viene progettata un’azione militare internazionale che s’inserisce in un conflitto già divampato, e che comporta distruzioni materiali e perdite umane, parlare di guerra è ovvio. Servono a poco, per addolcire la pillola, eufemismi benintenzionati come «intervento umanitario», «applicazione d’una risoluzione dell’Onu» e simili. Ormai le guerre si fanno senza dichiararle e si dichiarano senza farle.

Ma gli avvenimenti si sono sviluppati, lo sapete, in modo diverso da come alcuni potenti della Terra li avevano pronosticati. Per quanto ci riguarda particolarmente direi con spicciativa sintesi che l’Italia è entrata in guerra ma la guerra non è entrata in Italia. Non mi riferisco all’ovvia constatazione che nessuno minaccia l’integrità del territorio nazionale. Mi riferisco ai sentimenti del Paese: che non mi pare coinvolto drammaticamente in una vicenda che è vicina dal punto di vista geografico ma lontana dal punto di vista psicologico; che è sentita come estranea e torbida; che si sospetta occulti- sotto paroloni nobili come rivoluzione dei gelsomini, libertà, indipendenza - meschine voglie di grandeur . Non intendo commentare lo fanno altri - gli sviluppi della crisi che ha investito la «quarta sponda». Voglio invece ragionare sulla distanza che corre tra una parola carica di significati tremendi come «guerra» e un Paese stanco, preoccupato, godereccio. «Guerra» evoca ricordi gonfi di pathos e di dolore, ma con un loro fascino triste. La mobilitazione, la partenza dei reparti per i luoghi dove si combatterà, «addio mia bella addio... e se non partissi anch’io sarebbe una viltà».

Gli slanci patriottici, il maggio radioso, il Piave, le carneficine degli attacchi frontali, «vincere, e vinceremo!», «sul ponte di Perati». Scorrono nella memoria di chi c’era gli edifici nerastri e smozzicati delle città bombardate, i corpi dei caduti. Quella,nell’immaginario collettivo, era ed è la guerra autentica. Invece ci troviamo di fronte a un’Italia che è preda dell’angoscia per dover scegliere tra gli spaghetti all’amatriciana e il risotto all’onda. Probabilmente sono ingiusto. Assilli davvero gravi - anche derivanti dalla Libia, come l’aumento dei carburanti e l’afflusso di immigrati tormentano gli italiani. Ma poco hanno a che fare, nell’intimo di tutti noi, con una vera guerra. Hanno a che fare con le sommosse e gli scontri fratricidi di aree spesso turbolente. Càpita d’assistere a quegli sconquassi con l’attenzione un po’ cinica che la buona borghesia d’un tempo dedicava agli avvenimenti dei Balcani, «la polveriera d’Europa». All’Italia viene rimproverato il vizio dell’indifferenza che si vuole sia disceso fino a noi da secoli lontani, «Franza o Spagna purché se magna».

Qualcuno ce lo rimprovererà, temo, anche per la scarsa passione che gli italiani pongono in questa drôle de guerre , con i Tornado che non fanno fuoco e Sarkozy che ne fa fin troppo.

Il tentativo di far credere che in Libia ci siano gli integralmente buoni e gli integralmente cattivi, e che i primi lottano per la democrazia, non fa breccia in un popolo, l’italiano, che soffre di scetticismo cronico, e ne ha ben donde. Non è consolante dissociarsi dagli errori e dagli orrori della guerra per poi approdare ai dibattiti politici in tv. Posti di fronte all’alternativa gli italiani, pur soffrendo, optano per i dibattiti.

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