da Sanaa
Ahmed Alì è un fagottino di fasce e coperte, adagiato sui tappeti della moschea. Sopra gli hanno appoggiato una coltre di ramoscelli ed erbe aromatiche. Scacciano le mosche, imprigionano in un'aroma d'origano e spezie l'odore della morte. Suo padre, inginocchiato accanto a lui, prega e intanto tasta tra le pieghe del sudario, quel che resta del corpicino di suo figlio. Tutt'attorno un gruppo di uomini avvolti nella thobe , la tunica bianca degli yemeniti, ripete la litania. Ahmed Alì aveva dieci anni. È morto cinque giorni fa, dilaniato dalle schegge delle bombe che hanno distrutto la sua abitazione nel cuore di Daris, uno dei quartieri più poveri di Sanaa, la capitale yemenita. Sua madre gravemente ferita è ancora in un letto dell'ospedale tedesco-saudita di Sanaa.
«Io ero in Arabia Saudita a lavorare, non sapevo nulla. Mi hanno telefonato i vicini di casa raccontandomi che mio figlio era morto, mia moglie era all'ospedale e la casa non esisteva più - racconta il papà, Ahmed Alermooza, 47 anni -. Fino a oggi non avevo neanche realizzato, solo ora davanti al corpo di Alì ho capito. Solo ora comprendo quel che è successo. Hanno bombardato un quartiere di civili, hanno ucciso un bambino innocente. Questa non è una guerra, questa è una strage. I sauditi dicono di combattere gli Houti, ma quando hanno colpito casa mia hanno distrutto l'abitazione di uno yemenita che lavora per loro, nel loro paese. Hanno ucciso un bimbo che non sapeva neppure cosa fossero le armi, hanno ferito una donna che non faceva altro che occuparsi della propria casa e della propria famiglia. Adesso ho capito perché tutti i miei amici qui a Sanaa hanno iniziato a odiarli».
La rabbia, il dolore, il risentimento di Ahmed Alermooza sono un sentimento comune nella capitale dello Yemen dove, da 7 mesi, le bombe della cosiddetta Coalizione dei paesi del Golfo - guidata dall'Arabia Saudita e appoggiata logisticamente dagli Stati Uniti - colpiscono i diversi quartieri della città. Il rombo dei jet in volo seguiti, di tanto in tanto, dal fragore sordo delle esplosioni e da un tremore capace di scuotere le fondamenta dell'albergo in cui dormo sono il sottofondo e il refrain di ogni notte. A ogni sorgere del sole non resta che uscire e cercare le nuove distruzioni. Ufficialmente quelle bombe e quei missili dovrebbero colpire obiettivi rigorosamente militari, individuati e approvati grazie all'appoggio delle più avanzate tecnologie statunitensi. Insomma, dovrebbero bersagliare soprattutto le postazioni dei ribelli Houti che combattono al fianco delle forze del deposto presidente Alì Abdullah Saleh che, stando a quanto sostengono sauditi e statunitensi, controllano la capitale del paese grazie al sostegno dell'Iran.
«Siamo molto attenti nello scegliere gli obiettivi, abbiamo armi molto precise e lavoriamo assieme ai nostri alleati, tra cui gli Stati Uniti, nell'individuare gli obiettivi», ripeteva il ministro degli Esteri saudita, Adel al Jubeir, commentando il disastroso raid dei suoi aerei che il 28 settembre hanno colpito per errore una festa nuziale nella provincia di Taiz uccidendo 131 fra uomini, donne e bambini. Gli «incidenti» di quel tipo sono, in verità, assai frequenti. Quel che cambia di volta in volta è solo il numero dei morti. Per capirlo basta addentrarsi tra le rovine di Sanaa, basta cercare gli epicentri di morte e distruzione colpiti la notte precedente dagli aerei della coalizione saudita. Quando si arriva tra le rovine fumanti quasi mai si trova traccia d'insediamenti militari, quasi mai ci s'imbatte in armi o mezzi accartocciati.
Le macerie dell'appartamento in cui dormivano Ahmed Alì e sua madre sono un tappeto di detriti frantumati, una voragine scavata nel cuore di un condominio in cui vivevano normali famiglie yemenite prive di qualsiasi legame con la rivolta degli Houti. Come tante altre vittime dei raid aerei su Sanaa, Ahmed Alermooza e i suoi non hanno nulla da spartire né con lo zaidismo, il culto d'ispirazione sciita delle tribù Houti originarie dei territori settentrionali al confine con l'Arabia Saudita, né con Ansar Allah (Partigiani di Dio) la formazione armata degli Houti che controlla Sanaa e gran parte del nord del paese. Ma la violenza distruttrice di questi bombardamenti, tanto inutili quanto approssimativi, rischia di privare di qualsiasi sostegno popolare la coalizione responsabile dei raid aerei a cui partecipano, sotto guida saudita, Emirati arabi uniti, Kuwait, Qatar, Bahrain, Egitto, Marocco, Giordania, Sudan e Kuwait. Oltre a colpire i quartieri civili contribuendo al tragico bilancio di una guerra costata più di 5400 vite da marzo a oggi, i bombardamenti della coalizione hanno bersagliato anche Qassimi, lo storico quartiere antico della capitale abitato da oltre 2500 anni e inserito nell'elenco dei patrimoni protetti dall'Unesco. A Qassimi ho visto con i miei occhi gli antichi edifici sbriciolati dalle bombe e dai missili degli aerei sauditi. Gli stessi su cui Pier Paolo Pasolini girò nel 1971 il Decamerone e poi un breve documentario utilizzato per implorarne la salvaguardia dell'Unesco.
Gli stessi aerei che hanno sbriciolato gli antichi palazzi di Sanaa colpiscono giorno e notte la strada per Sadah, 250 chilometri a nord della capitale, trasformando il percorso in un'autentica lotteria della morte. Chi come me s'avventura su questo rettilineo d'asfalto crivellato di voragini e crateri deve sapere che qui l'aviazione non fa sconti a nessuno. Qualsiasi veicolo più grande di un'utilitaria è considerato un mezzo potenzialmente in grado di trasportare militanti Houti o rifornimenti per le loro milizie. E può quindi essere legittimamente incenerito. Per capirlo basta guardare gli scheletri carbonizzati di camion e vetture che costeggiano l'asfalto, basta prestar attenzione al ronzio dei jet in volo ad alta quota e sempre pronti a sganciare bombe e missili. La strada è uno dei vitali cordoni ombelicali che consente alle milizie Houti, presenti a Saana, di mantenere contatti con le basi tra le montagne e ricevere aiuti. Fuwas, il traduttore appiccicatomi addosso dai militanti Houti, vuole a tutti i costi convincermi che quella preziosa arteria è ancora sotto il loro controllo. Il che è anche vero. Le truppe yemenite fedeli al presidente Abed Rabbo Mansour Hadi, riportato ad Aden lo scorso luglio dai sauditi dopo la cacciata degli Houti, si guardano bene dal mettere piede nel nord del paese dove non godono di alcun consenso popolare. Qui le popolazioni sunnite sono quasi tutte per Alì Abdullah Saleh, l'ex presidente che dopo essersi dimesso nel 2012, lasciando dopo 34 anni di potere il posto ad Abed Rabbo Mansouri Hadi, è tornato nel paese e si è alleato con le tribù houti per combattere il proprio successore.
L'assenza dei nemici degli Houti non basta però a trasformare in una passeggiata gli spostamenti nel nord. Ponti, incroci e infrastrutture intorno a questa strada della morte, disseminata di cadaveri e rottami, sono completamente distrutti. E così in questo paesaggio spettrale anche il coraggio e la devozione dell'accompagnatore incaricato di guidarmi nei territori ribelli è messo a dura prova.
Mentre fotografo da meno di due minuti una distesa di auto e camion trasformati in lamiere contorte, Fuwas scende dalla Toyota e mi spinge letteralmente in auto. «Che diavolo fai qui? Fermarsi più di due minuti significa lasciarci la pelle. Ho detto che la strada la controlliamo, non che ci passeggiamo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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