Rapita da bambina, si libera dopo otto anni

Il carceriere, vistosi scoperto, ha capito di avere ormai le ore contate e si è buttato sotto a un treno

Manila Alfano

Otto anni buttati in un garage. Otto anni su diciotto. Una vita. Un tempo inimmaginabile che non le verrà mai restituito, fatto di inverni, primavere e ancora inverni a cui mercoledì scorso è riuscita a mettere fine scappando dal suo aguzzino, nonostante la paura e le minacce, nonostante la soggezione che aveva del suo carceriere.
Le resta un passaporto con cui ha potuto convincere i poliziotti che l’hanno trovata: «Sono Natascha Kampusch. Sono io. Sono la bambina che è stata rapita il 2 marzo del 1998». Sapeva che doveva convincerli a tutti i costi. «Sono scappata, ho approfittato di un attimo di distrazione e sono riuscita ad uscire. Aiutatemi». I polizioti si sono scambiati sguardi increduli, poi il passaporto ritrovato a casa del suo aguzzino che lei portava sempre nella sua cartella, gli ha dato la certezza. Una cicatrice di quando era piccola un’altra conferma. Poi la prova del Dna con risultato positivo. Non c’è dubbio. Quella giovane donna pallida e confusa, trovata a vagabondare in un parco a Deutsch-Wagram, alla periferia est di Vienna, è la bambina scomparsa anni e anni prima.
È scattata così la caccia al sequestratore, che si sarebbe nascosto all’interno di un centro commerciale, nel parcheggio infatti è stata ritrovata la sua auto. L’uomo sarebbe stato visto allontanarsi in fretta dal luogo dove la ragazza è ricomparsa. Il suo universo si stava sgretolando. Ha chiesto aiuto a un amico raccontando di essere ricercato dalla polizia per guida in stato di ebbrezza. Sapeva di non avere più scampo. Wolfgang Priklopil si è tolto la vita gettandosi sotto un treno verso le 21 della stessa sera. Nelle tasche del cadavere il mazzo di chiavi della Bmw.
Intanto sono arrivati i genitori e si sono trovati di fronte una donna. «Sono molto sollevato», le uniche parole che il padre riesce a dire. Poi hanno chiesto almeno tre giorni di silenzio. Devono riprendersi dallo choc, devono capire, accettare, imparare a conoscersi da capo con Natascha. Portata via così, una mattina uguale a tante altre da quel conoscente. Un uomo di 44 anni, solitario e restìo ad ogni relazione umana, che viveva appartato nella riservatezza della sua casa con la passione dell’elettronica, ma che aveva imposto a Natascha di chiamarlo «Sire», come i re nelle favole.
Quella mattina si era svegliata e preparata per andare a scuola, zaino in spalla e merenda sotto il braccio aveva salutato la mamma. E poi di lei più nulla. L’hanno cercata per mesi in ogni angolo di Vienna, poi fino in Ungheria, interrogato genitori, familiari, conoscenti, vicini di casa, amichetti di scuola. Nessuno sembrava aver visto niente, tranne una sua compagna che l’aveva vista mentre veniva trascinata a bordo di un furgone bianco. E Priklopil era proprio uno tra i mille proprietari di furgoni bianchi interrogati dalla polizia nell’aprile de 1998. «Mi serve per il mio lavoro», aveva spiegato. Tutti gli avevano creduto. Eppure sarebbe bastato perquisire la sua casa alla periferia di Vienna. Natascha era rimasta lì, nella stessa città, a pochi chilometri da mamma e papà fino all’altro giorno, quando si è ripresa la libertà.
Una vita interrotta a cui ancora nessuno sa dare una spiegazione. Prigioniera di un mostro che coltivava in segreto la sua ossessione: tenersela solo per sé e non dividerla più con nessuno.
Il suo mondo era diventato uno stanzino piccolissimo fatto di un lettino, un armadio e un bagno, chiuso con una porta blindata e una scala ripida e stretta per raggiungerlo, sotto il garage dell’abitazione. Un mondo assurdo, fatto di qualche breve passeggiata con il suo sequestratore nel quartiere, un paio di riviste ogni tanto, la televisione e la radio, quando decideva lui, e poi tanta solitudine. «La ragazza è pallida, perfino bianca, sembra non essere stata alla luce per lungo tempo, ma parla bene e sa leggere e scrivere. Per il momento non ci sono segni di abusi sessuali», ha detto un investigatore dell’ufficio criminale federale. Gli psicologi l’hanno visitata: «Sindrome di Stoccolma» la diagnosi, una soggezione psicologica che l’ha legata come un doppio filo al suo padrone.
I vicini di casa non si erano accorti di niente. «Persona assolutamente normale e non appariscente», così lo definisce il proprietario di un negozio di accessori per auto, dove Priklopil si sarebbe recato spesso a comprare pezzi di ricambio per la potente Bmw che usava negli ultimi tempi. E forse proprio questa riservatezza ha fatto sì che nessuno del quartiere ricordasse quest’uomo.
«Lo avevo visto un giorno con una ragazza a bordo della sua auto, ma pensavo che si fosse fidanzato», racconta una vicina. Priklopil era riuscito a coltivare negli anni solo due amicizie, la prima con l’uomo a cui ha chiesto aiuto poco prima del suicidio e la seconda con il socio in affari assieme a cui gestiva a Vienna una agenzia immobiliare. Ma negli ultimi tempi sembrava non avere più un’occupazione fissa. Entrambi gli amici hanno reagito con estrema sorpresa alla tragedia.


Si chiude così il caso Kampusch, che da anni si portava dietro notizie, rivelazioni, racconti, teorie, ipotesi. Tutte infondate, spesso di personaggi in cerca di pubblicità, tra i quali un investigatore privato e un ex candidato alle elezioni presidenziali austriache, Martin Wahl, condannato per falsa testimonianza.

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