Da Pretoria. Hanno assediato per ore la sede dell'Alto Commissario dell'Onu per i Rifugiati prima dell'arrivo della polizia che le ha fatte sgombrare. Erano tutte donne arrivate in Sud Africa dall'Etiopia, Malawi, Zimbabwe, Burundi, Somalia e Nigeria. Chiedevano all'Onu di far pressione sul Sud Africa, per ottenere lo status di rifugiati politici e soprattutto una protezione dagli «abusi fisici e materiali» di cui sono vittime. Vittime - sostengono - della «discriminazione etnica» che ormai sta permeando il tessuto sociale del nuovo Sud Africa.
Questi recenti fatti hanno «turbato» i media internazionali. Nessuno si aspettava che un Paese liberato dall'apartheid si trovasse ora intrappolato da un'ondata di xenofobia così violenta. «Balle, tutte bugie - dice Philemon, un giardiniere mozambicano -. Noi non siamo razzisti perché siamo tutti dello stesso colore. Ma, a parte questo, è vero, siamo differenti, nella lingua, nella cultura, nella religione ed è molto difficile convivere e arrivare ad una vera integrazione con i fratelli sudafricani».
Sì, la discriminazione esiste, anche in Sud Africa dove il termine «razzista» è ormai «out of fashion», fuori moda; se ne parla sempre di meno e serve soltanto durante qualche comizio di neri radicali che vorrebbero espropriare le aziende agricole dei farmers europei - centinaia dei quali sono stati assassinati negli ultimi anni - e nazionalizzare la maggior parte delle risorse economiche del Paese. Ma non tutti la pensano come Philemon o i fratelli locali. «Nel mio ristorante impiego soltanto neri del Malawi e dello Zimbabwe, nessun locale», dice Dimitriu, greco-cipriota di terza generazione e tesserato dell'Anc, il partito al governo dal 1994. «Perché i neri locali rubano e non vogliono lavorare. Dicono che hanno lavorato troppo durante il governo del passato e adesso devono lavorare gli altri». Già, gli «altri» sono «quelli del nord», quelli che invece di prendere la rotta della Libia per terminare il loro viaggio su qualche spiaggia europea, scendono nel «Paese del Latte e del Miele», come veniva definito il vecchio Sud Africa.
Tenuta nascosta, quasi in uno stadio di incubazione, l'ondata xenofoba è esplosa improvvisamente non per pura e semplice ragione di etnia; più semplicemente per arginare il tentativo degli espatriati nigeriani di impadronirsi totalmente del traffico di stupefacenti nell'intero Sud Africa. In questa guerra tra i signori della droga hanno perso la vita dozzine di persone. Impressionati dal grido «morte ai nigeriani», il governo di Abuja è dovuto intervenire imbarcando 600 connazionali che temevano per la loro vita. «Li liquideremo, tutti, dice un funzionario del «munitoria», il municipio di Pretoria che dice, schiettamente, «noi non siamo razzisti ma i nigeriani, come tutti gli emigranti che rubano il nostro lavoro, quelli non li vogliamo, devono andare nei loro Paesi di origine».
Le parole dell'impiegato del Munitoria cadono però nel vuoto. La stampa locale ha annunciato che «un'ondata di emigranti provenienti dal nord dell'equatore» è stata accolta a braccia aperte dal presidente del Ruanda Paul Kagame, al loro arrivo nella capitale Kigali.
Dicono, i nuovi rifugiati africani in Africa di essere «perseguitati» dai regimi di Etiopia, Eritrea, Somalia e Sudan. Intervistati da una tv araba, i non malnutriti profughi hanno raccontato d'essere fuggiti per le politiche discriminatorie di cui sono vittime nei loro rispettivi Paesi.
«Il problema - sostiene Thabo Mwezi, un giornalista locale che si occupa di immigrati - è il controllo degli stessi che arrivano, in nome della fratellanza africana, da Paesi che, per la maggior parte della nostra popolazione, non esistono». Statistiche precise non ci sono. Si parla di un Sud Africa con una densità demografica che si aggira sui 50 milioni di individui di cui un terzo «illegali». La cittadinanza? Su questo punto la legge è stretta. Una volta ottenuta la residenza permanente, dovranno trascorrere diversi anni prima di poter divenire, a tutti gli effetti, cittadino sudafricano. Tuttavia - hanno ammesso le autorità locali - non è difficile ottenere falsi documenti «pagando un certo prezzo» a gang specializzate nella contraffazione.
Gli emigrati africani con un titolo di studio qui hanno il vantaggio, a volte, di trovare un impiego in settori dove il nuovo Sud Africa si è trovato, negli ultimi anni, svantaggiato: la sostituzione di medici e infermieri che, per diverse ragioni ma soprattutto per non assicurarsi un futuro, hanno preferito emigrare.
Nessuno, a livello ufficiale, è stato capace di quantificare il numero di morti per questi conflitti su base tribale. Perché nonostante ciò che si dica in Europa, dove il tribalismo viene pudicamente definito «etnicità», esiste in tutti i Paesi che formano il Continente. Si scannano in Nigeria, in Camerun, in Nigeria, in Congo e in Libia per ricordare alcune nazioni i cui nomi, sporadicamente, appaiono sui fogli stampati nell'emisfero boreale.
Le differenze tribali non si limitano soltanto alla storia delle diverse etnie. Basti ricordare che nel diciannovesimo secolo il Re Zulu Shaka, liquidò i suoi rivali Pondo in quella che oggi viene ricordato come il M'fekane, l'Olocausto che obbligò le tribù sottomesse dagli Zulu, razza guerriera, a emigrare verso il Nord, nell'odierno Malawi dove l'etnia cambiò il nome in N'Guni o Angoni.
Pare che del problema «fenomeno migratori» se ne sia addirittura parlato ai margini dei colloqui tra Graca Machel, vedova dell'ex presidente mozambicano Samora Machel e più tardi
vedova di Nelson Mandela, il primo presidente sudafricano di colore, durante un breve colloquio con il Duca e la Duchessa del Sussex, Harry e Meghan - quest'ultima di origine afro-americana - in visita privata in Sud Africa.
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