Un regalo a chi vuole gli Usa più deboli

Fossi Barack Obama, mi si scusi l’azzardo, direi al comitato che mi ha assegnato il premio Nobel per la pace: «Gentilissimi signori, è meraviglioso quello che mi capita, e ve ne sono grato: ma fatemi un piacere tenetevi in un cassetto questo premio, assegnatelo magari a un’afghana, che in questo momento laggiù le donne ne hanno parecchio bisogno: conservatemelo per il prossimo anno. Se me lo sarò meritato, lo verrò a ritirare». Ma Barack è Barack, e si vede benissimo che il suo modo di vedere se stesso è quello di chi pensa che qualsiasi lode, qualsiasi onore, sia un po’ meno di quel che si merita. Che è la sua essenza, progressista e finalmente realizzatrice della riscossa di neri americani, che merita il Nobel: e non ci convincono le sue parole di modestia. Obama fin dal primo giorno è stato gratificato di aspettative gigantesche, che egli ha alimentato con toni messianici e palingenetici, ovvero suggerendo sempre che ora che era arrivato lui cambia tutto.
E la giuria del Nobel, ci crede. Perché è chiaro che questo premio gli viene dato non certamente per quel che ha fatto, ma per ciò che Obama è. Il povero Bill Clinton che ha lavorato anni e anni con le unghie e con i denti a cercare la pace in Medio Oriente e in Irlanda non ha avuto il premio. È vero che non ce l’ha fatta, ma almeno ha sudato parecchio. La sua intenzione era molto più chiara e anche più articolata, per esempio, di quella di Obama. Obama invece si è insediato solo due settimane prima della deadline delle nomination, il 2 di febbraio, eppure con intuizione profetica il comitato già sapeva con quale uomo di pace aveva a che fare. Per favore. Il premio a Obama deriva da una valutazione di immagine, valorizza la parte iconografica del personaggio. E il resto dei motivi è populista, e questo non fa bene né a Obama né alla pace. In inglese si chiama politically correct. In italiano, è basso senso comune. Non c’è nulla come la pace che faccia alzare gli occhi al cielo in un virtuoso sospiro di afflato universale.
Obama per questo ha preso il premio Nobel. Per una serie, per ora, di pie illusioni: ha predicato il multilateralismo mentre tutti quelli che avrebbero dovuto partecipare al suo progetto di pace universale continuano diritti sulla loro strada; ha fatto come se fosse aperta una porta per parlare con l’islamismo anche quello più estremo, e i terroristi non risulta davvero che abbiano cambiato idea. Perché si è stranamente semigenuflesso di fronte a un sovrano saudita; perché durante il discorso del Cairo si è immaginato che il sincretismo che è nella sua biografia fosse trasferibile al mondo intero, che bastasse dire io ho fatto del male a te tu a me, ma ora c’è Obama, vogliamoci bene; perché è sembrato molto sicuro di sé nell’azzardo di parlare con Ahmadinejad ottenendo tuttavia a Ginevra durante i colloqui dei risultati alquanto dubbi e anche pericolosi. Obama ha promesso di chiudere Guantanamo e poi non ce l’ha fatta, si dibatte nella morsa della guerra in Afghanistan ripercorrendo di fatto le orme di George Bush. All’incontro di Pittsburgh, dopo il discorsone universale dell’Onu, è stato costretto ad annunciare la centrale nucleare segreta iraniana di Qom.
Obama invece di una guerra preventiva non fa che promettere una pace preventiva: e fa specie che non si renda conto che se lo stallo della sua pace preventiva dovesse portare invece alla bomba atomica iraniana, questo creerebbe una quasi certa prospettiva di guerra. O che Israele infatti sarebbe costretta ad affrontare il problema da sola con un attacco cui seguirebbe una risposta balistica; o che gli Usa stessi, come suggerisce l’ordinazione di una micidiale bomba che distrugge i bunker annunciata dal Pentagono, deciderebbero di agire. Altrimenti, l’Iran potrebbe tentare delle azioni di disturbo che metterebbero a ferro e fuoco il Medio Oriente per misurare la sua nuova potenza. E comunque, l’atmosfera di paura indotta da questo nuovo clima di pace obamiana è tale che la corsa alle armi, anche atomiche, nei paesi arabi è cresciuta verticalmente. Obama nella sua reazione al premio Nobel non ha potuto fare a meno di menzionare di nuovo la questione israelo-palestinese. Niente è più insicuro che puntare su una pace fra Netanyahu e Abu Mazen mentre Hamas è al potere a Gaza, niente è più fallace che creare un’opinione pubblica che si immagina che se Israele cederà territori allora cesseranno tutti gli scontri col mondo islamico, quelli talebani, quelli con Al Qaida, quelli con Hezbollah, e anche il terrore nelle città occidentali... La pace di Obama oltretutto è molto delimitata, non contempla quelle zone in cui la realpolitik ne potrebbe essere danneggiata, come per esempio la guerra del Darfur, o quella dei cinesi contro gli uiguri, o quella in Yemen...

La sua idea di un mondo felice non si occupa molto di diritti umani: solo due giorni fa Obama non ha trovato il tempo che si ricevesse il Dalai Lama alla Casa Bianca, primo rifiuto in 18 anni; mai lo si è sentito avvero impegnato per salvaguardare i diritti dei perseguitati, uccisi, torturati, del regime iraniano, e ultimamente i fondi di alcune organizzazioni di dissidenti sono stati tagliati. Obama si prende il Nobel come un giornalista si prenderebbe un Pulitzer sul progetto di un’inchiesta, o di un libro. Buon per lui, peggio per i lettori.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica