La riforma fiscale parte dal salario

Nel provvedimento parallelo alla Finanziaria compare la detassazione del lavoro straordinario, con l’introduzione dell’aliquota secca del 10% per i redditi altrimenti sottoposti al 23%. È una svolta epocale

Accanto alla legge finanzia­ria, ora legge di stabilità, ci sarà a metà novembre un decreto legge per lo sviluppo, comple­tato a fine anno dal decretino «mille proroghe». Nel decreto legge sullo sviluppo ci saranno varie misure, come quelle ri­chieste per consentire il varo della riforma universitaria, e ­fra tutte- emerge per la sua rile­vanza rivoluzionaria, la detas­sazione del salario di produtti­vità. Non si tratta della mera proroga della norma, introdot­ta in via sperimentale, per cui il reddito percepito dai lavorato­ri come compenso per gli orari straordinari è tassato al 23 per cento anziché con l’aliquota dell’Ire (imposta personale sul reddito) più elevata e commi­surata al reddito complessivo. Questo era solo l’inizio. Ora entra in vigore il regime fiscale del salario di produttività, che ha una aliquota secca del 10% (e non più del 23%) e che riguar­da- in linea di principio- i com­pensi per orari straordinari, la­voro notturno, turnazioni e pre­mi di produttività. Il nuovo regi­me dovrebbe applicarsi sino a 40mila euro lordi di retribuzio­ne, in attesa di essere esteso a livelli più alti. Poiché questo è un annuncio del ministro Sac­coni, non ancora del ministro dell’Economia Tremonti che ha i cordoni della borsa e deve individuare le coperture, non è ancora certo che questo dise­gno v­enga varato nella sua inte­gralità per tutti i settori dell’eco­nomia. Ma anche ridimensio­nato esso, come dicevo, ha una importanza rivoluzionaria. In­nanzitutto la ha perché in que­sto modo il governo Berlusco­ni sposa in pieno il nuovo mo­dello contrattuale proposto da Sergio Marchionne e sponso­rizzato dalla Confindustria e della altre organizzazioni im­prenditoriali, che consiste nel­la contrattazione aziendale dei rapporti di lavoro, fondata sul­la produttività, mirante a gene­ra­re più crescita economica tra­mite una maggiore efficienza produttiva. Sul piatto della bi­lancia che riguarda il nuovo modello contrattuale, che fa parte del patto per la crescita, il governo pone un peso consi­stente, quello della politica tri­butaria di favore. Per i sindaca­ti si tratta, quindi, di contratti che, a fronte di sacrifici lavorati­vi, rispetto al regime attuale, comportano un maggior reddi­to netto, dato dal minor prelie­vo fiscale. Per gli imprenditori si tratta di una spinta verso mo­delli di organizz­azione produt­tiva basati su un maggior utiliz­zo degli impianti e un miglior utilizzo del lavoro, in conse­guenza della detassazione del fattore lavoro, che ciò compor­ta. Dal punto di vista teorico, il modello che Tremonti e Sacco­ni propongono, con la detassa­zione del salario di produttività tramite una aliquota propor­zionale secca del 10%, è il mo­dello dell’ottima imposta di Luigi Einaudi, che consiste in un tributo che ha una aliquota minore per il reddito margina­le, derivante da una maggior produttività. Per Einaudi que­sta imposta è ottima perché neutra ed è neutra perché non ostacola lo sviluppo. Io la deno­minerei «imposta conforme al­le forze del mercato». Al di là delle definizioni terminologi­che, resta la sostanza, che è una rivoluzione nella concezio­ne corrente del sistema tr­ibuta­rio di natura giustizialista e diri­gista e non segue le «leggi di na­tura del mercato». Qualcuno si domanderà co­me mai Tremonti non abbia in­trodotto nella legge finanzia­ria, che ora si chiama «legge di stabilità» la detassazione del sa­­lario di produttività, che ora vie­ne s­piegata da Sacconi nel det­taglio ma che Il Giornale aveva già annunciato ieri, sulla base di notizie raccolte presso il mi­nistero dell’Economia. Credo che si debba elogiare Tremonti per essere stato cauto e non avere voluto mettere nella leg­ge di stabilità uno schema, più o meno grande, di detassazio­ne del salario di produttività. In­fatti, egli in questo modo impar­tisce non solo agli italiani, ma soprattutto alla classe politica italiana, compresa quella par­te del centro destra che ama chiamarsi futurista, che la pri­ma cosa da fare è assicurare la tenuta del bilancio pubblico, cioè la stabilità. La politica di sviluppo viene dopo, non pri­ma o assieme. Le riforme fisca­li e i programmi di sviluppo, co­me insegnava Ezio Vanoni, che fece entrambi a metà degli anni Cinquanta del secolo scor­so, ma non fu ben compreso, come si vede anche adesso, si fanno dopo avere messo il bi­lancio in sicurezza. La seconda ragione per cui Tremonti fa be­ne a presentare il decreto sullo sviluppo e, in esso, la detassa­zione del salario di produttivi­tà, in un decreto legge di metà novembre è che così esso si sgancia dalla discussione della legge finanziaria, ove diverreb­be oggetto di ogni sorta di tira e molla.

Il treno della legge di sta­bilità può procedere veloce per arrivare in orario prima delle fe­ste natalizie, per dare certezze agli operatori economici e agli analisti finanziari. E il treno del decreto legge sullo sviluppo, dotato della sua copertura di sette miliardi. Può partire per conto proprio, venendo con­vertito in legge a metà gennaio.

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