Roma, febbraio 1849 L’alba della repubblica

Un saggio di Claudio Fracassi rilegge «da sinistra» la breve avventura che fece tremare il potere papalino

In un grosso volume edito da Mursia, Claudio Fracassi racconta La meravigliosa storia della repubblica dei briganti. Il titolo può trarre in inganno, e far pensare a un saggio sul fenomeno del brigantaggio meridionale, che ebbe dopo l’Unità indubbia rilevanza. L’appellativo «briganti» si riferisce invece ai patrioti che dall’autunno del 1848 all’estate del 1849 presidiarono la Repubblica romana, istituita nella città del Papa: e che dagli ambienti e dai mezzi d’informazione clericali furono gratificati dei più infamanti epiteti. Nell’anatema che fu da Pio IX scagliato contro quanti aderirono alla Repubblica era precisato: «Niuno di voi possa dirsi illuso da fallaci seduzioni e da predicatori di sovversive dottrine, né ignaro di quanto si trama da’ nemici d’ogni ordine».
L’Italia e l’Europa erano in convulsione, venti d’indipendenza le percorrevano, l’Ancien régime pericolava e i governi erano stati costretti a elargire riforme e costituzioni. Il Piemonte di Carlo Alberto aveva sfidato - uscendone battuto una prima volta con l’armistizio di Salasco - la potenza austriaca: e fu definitivamente sconfitto - con l’abdicazione del Re, «italo Amleto» - a Novara. Nella grande illusione di chi voleva una svolta liberale Pio IX s’era prima inserito come fautore del nuovo. Lo sembrava a tal punto che forze armate pontificie al comando del generale Durando s’erano mosse per combattere gli austriaci. Ma in quel ruolo era rimasto per poco.
A Roma la situazione diventava caotica. Pellegrino Rossi - che era stato ambasciatore della Francia monarchica presso il Papa - fu incaricato di guidare il governo papalino, ma la coltellata d’un attentatore lo freddò il 15 novembre 1848. Pio IX decise a quel punto d’abbandonare la sua capitale. Nella notte tra il 24 e il 25 novembre lasciò in incognito il Quirinale e raggiunse Mola di Gaeta, dove si pose sotto la protezione di Ferdinando II, il re di Napoli, passato alla storia come «Re bomba» per aver represso a cannonate i moti quarantotteschi di Messina. Ferdinando II s’era anche lui indotto, obtorto collo, ad aperture riformiste, e aveva promulgato una costituzione. Ma poi se la rimangiò tranquillamente. Ferdinando II vegliò con filiale devozione sul Papa, totalmente ravvedutosi dopo l’osannata parentesi liberale, e ne fu remunerato con paterni elogi.
Lo Stato della Chiesa divenne dunque repubblica. Tra coloro stessi che la proclamarono ve ne furono che lo fecero quasi a malincuore. Gli annunci d’un ordine nuovo s’intrecciarono ad appelli al Santo Padre perché tornasse nella Città Santa, sottraendosi alle istigazioni dei cattivi consiglieri. Ma ormai il dado era tratto, dall’una e dall’altra parte. Pio IX aspettava soltanto «il rimorso dei nostri figli traviati per i sacrilegi e i misfatti commessi».
La Repubblica romana fu proclamata il 9 febbraio 1849, ebbe a protagonisti due padri della patria - Mazzini e Garibaldi - e calamitò da tutta Italia e dall’Europa «una moltitudine di ragazzi e ragazze: la meglio gioventù di quegli anni febbrili». Molti, in quella gioventù, si sacrificarono, furono un migliaio i morti: tra loro Luciano Manara, e Goffredo Mameli il cui inno ancora ci accompagna nelle occasioni cerimoniali. La Repubblica romana fu spenta l’ultimo giorno di giugno dalle forze francesi di Oudinot, un pomposo e stolido generale secondo il quale «les italiens ne se battent pas». L’attacco non fu ordinato da cancellerie reazionarie, ma da quel Luigi Napoleone Bonaparte che in gioventù aveva tifato per i carbonari e che ora, divenuto presidente della Francia - e in attesa d’essere issato alla dignità imperiale come Napoleone III - obbediva alla ragione politica. Ha scritto di lui Montanelli: «Respinse l’invito di Vienna a un intervento armato austro-francese, ma s’impegnò col nunzio apostolico ad agire, e lo fece nella maniera più ambigua: dicendo agli austriaci che avrebbe occupato Roma per restaurarvi il Papa, dicendo ai piemontesi che lo faceva per creare un contrappeso all’Austria e dicendo agli inglesi e all’opinione pubblica europea che ci andava da paciere per indurre il Pontefice e il governo rivoluzionario a un compromesso».
Claudio Fracassi, già direttore di Paese Sera e del settimanale Avvenimenti, è un militante di sinistra. Questa connotazione ideologica dà al suo saggio un tono apologetico a volte eccessivo. In alcuni passaggi la vicenda della Repubblica romana assume le caratteristiche d’un western, i buoni tutti da una parte, i cattivi tutti dall’altra. Ma in molte osservazioni Fracassi ha ragione. Pur effimero e velleitario quale fu, lo Stato di Mazzini e Garibaldi ebbe una nobiltà e una modernità straordinarie. Dallo stambugiom in cui si era rifugiato nel Palazzo della Consulta, il profeta Mazzini emanò disposizioni improntate a notevole saggezza, a lungimiranza, a rispetto per i diritti di tutti. Furono indette elezioni. Il maggior elogio di ciò che il governo repubblicano attuava sta nelle critiche di un cronista d’osservanza papalina: «Il governo retto a popolo è il castigo e il flagello più terribile che il cielo sdegnato possa infliggere alla misera umanità... con l’esistenza dei circoli, la libertà di stampa».
Pio IX celebrò la vittoria, il 17 luglio 1849, con un proclama che così cominciava: «Iddio ha levato in alto il suo braccio ed ha comandato al mare tempestoso dell’anarchia e dell’empietà d’arrestarsi. Egli ha guidato le armi cattoliche per sostenere i diritti della umanità conculcata, della fede combattuta, e quelli della Santa Sede e della Nostra Sovranità. Sia lode eterna a Lui, che anche in mezzo alle ire non dimentica la misericordia». Si può concedere molto, non tutto. L’idea che il generale Oudinot fosse guidato da Dio non è proprio convincente.
Nonostante alcune riserve, rendo merito a Fracassi per questo lavoro che arriva mentre il Risorgimento è messo in discussione non per le sue miserie - che ci furono, e furono tante - ma nella sua stessa essenza. Assistiamo a conati di riabilitazione dei Borboni, dello Stato dei Papi, magari dei briganti, quelli autentici. L’identificazione del potere temporale con la sacralità del cattolicesimo e con l’autorità del Vicario di Cristo ha assunto, nella polemica clericale d’un tempo, accenti forsennati. Va aggiunto che dopo l’Unità - e anche prima della presa di Roma - Pio IX, papa italiano, auspicò un intervento delle grandi potenze che mettesse in riga l’arrogante Italia.

Nel 1865 un ambasciatore inglese, Odo Russell, informò Londra d’un suo colloquio con il segretario di Stato cardinale Antonelli. «Come il Papa - scrisse Russell - Antonelli spera in una guerra europea che rimetta a posto le cose nella Santa Sede». Gli slanci d’un revisionismo eccessivo non dovrebbero dimenticare questi fatti.

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